Pasquale Raicaldo*
Sono stato svegliato, quasi di soprassalto, dal brulicante ronzìo di uno sciame d’api: in centinaia, attratte dai fiori degli aranci che dominano il piccolo orticello nel cuore di Ischia sul quale affaccia la camera da letto. Mai si erano sentite così nitide e, forse, indisturbate: ci sono più fiori selvatici ai quali attingere, senza dubbio. Ma è anche vero che in queste lunghe settimane di lockdown abbiamo cambiato, si direbbe anche rivoluzionato, la nostra percezione di ciò che ci circonda. Non una mutazione antropologica, per la quale occorrerebbero – Dio ce ne scampi – tempi più lunghi, ma certo una modifica, più o meno profonda a seconda delle rispettive sensibilità, del nostro stare al mondo. Ha scritto Olga Tokarczuk, premio Nobel per la Letteratura 2018: “Per me da molto tempo ormai il mondo era troppo”. Era troppo, riflettiamoci, per chi ha finito con l’assuefarsi alla frenesia dei ritmi occidentali, in particolar modo quelli metropolitani. Dall’imposizione, che spesso è in fin dei conti un’autoimposizione, del dover fare, dover incontrare, finanche doversi divertire.
Pensavo a questo, nel cuore del giorno numero 45 della quarantena (li contate anche voi?), quello del nido dei merli, certo uno degli eventi-clou di questa lunga astinenza forzata dalla vita pre-Covid, tra pane fatto in casa e serie-tv, e la piacevole riscoperta della lettura rilassata. Ebbene, nell’orto di cui sopra ci accorgiamo che l’intenso via-vai di uccelli – intuibile durante la bisettimanale raccolta di fave e piselli – era invero legato a un lieto evento, la nascita di tre pulli. Non ce ne saremmo accorti in tempi normali, e su questo non v’è dubbio alcuno. In tempo di quarantena, l’occhio impara a osservare. Il mio amico ornitologo Rosario Balestrieri mi ha raccontato di aver osservato, dalla sua finestra, 61 specie differenti di uccelli nell’arco di una mattinata. E abita a Napoli, tra il rione Traiano e Pianura.
Il punto è che, come ha scritto Michele Serra, è come se ci fosse stata una restituzione di tempo, “un bonus non governativo molto provvido e spalmato con equità”. Pagato a caro prezzo, sia chiaro. La pandemia non ha fatto sconti e un giorno conteremo i danni, in termini di costi umani ed economici. Però se oggi c’è qualcuno che – tra il serio e il faceto – chiede di istituire una settimana di “fermate al mondo” ogni anno, una sorta di lockdown dallo stress da pianeta – il nostro, ma soprattutto quello della Terra – vuol forse dire che un cambio di paradigma è possibile, e non più solo auspicabile.
Sappiamo da decenni, da assai prima che ce lo ricordasse una combattiva adolescente svedese, che l’attuale modello di sviluppo del mondo proprio dell’Antropocene, e dunque fortemente condizionato dagli effetti su scala globale dell’azione umana, ci sta conducendo sull’orlo di un precipizio. Che le risorse del pianeta non sono inesauribili. Che la popolazione umana cresce a ritmi insostenibili.Con sguardo compiaciuto, ci siamo soffermati in questi giorni sui delfini che fanno capolino nei porti, sui capodogli a pochi metri dalla Costiera amalfitana e abbiamo condiviso la storia – anche un po’ retorica, se vogliamo – della natura che si riappropria dei suoi spazi, quasi che – obnubilati dal nostro antropocentrismo – non sia in fondo inevitabile che le altre specie beneficino di un nostro – diciamo così – passo indietro. Che possano sopravviverci, persino. Il punto – e la questione è tutta qui – è comprendere quanto davvero l’uomo sia disposto, dopo la pandemia, a rimettersi in discussione. Individualmente e collettivamente. Sfuggendo alla logica del “breveterminismo”, la tendenza dilagante a ragionare sul breve periodo – lo fanno i politici, lo fanno gli imprenditori: è (stata) la dittatura di un mondo voracemente ingordo – e iniziando a ragionare in termini transgenerazionali. Gli effetti delle buone pratiche di oggi, anche le più impercettibili, faranno bene ai miei pronipoti. Difficile, vero? Eppur si muove: il videomaker Giuseppe Jepis Rivello ha intervistato alcuni giovani campani, scoprendo che il valore che oggi danno alla terra e alla coltivazione, quella a misura d’uomo e rigorosamente slow, è già sensibilmente maggiore rispetto a due mesi fa. Nel suo illuminante articolo che ha ispirato questo breve scritto, Raffaele Schettino ha parlato di memoria.
Perché il virus, uccidendo soprattutto gli anziani, ha cancellato parte della nostra memoria, certo, ma soprattutto accelerato un processo di marginalizzazione già in atto degli over 70, quasi che si possa prescindere dalle loro storie, dalla loro esperienza. Un fotografo casertano, Alessandro Scarano, sta condividendo la sua quarantena con la nonna, una novantenne di rara intensità espressiva, e ha deciso di raccontare con un diario fotografico sui social la sua quotidianità. I suoi riti quotidiani sono diventati – mi spiegava – l’ombelico di un mondo al quale aveva spesso guardato con superficialità. Il lockdown ha cambiato il suo modo di osservarlo, così come noi tutti abbiamo ripreso – seppur virtualmente – il filo di vecchie amicizie colpevolmente accantonate, improvvisamente rinverdite da improbabili videochiamate serali, e senz’altro compreso quanto un bagaglio inutilmente ingombrante – fisico ed emotivo – finisca col gravare sulle nostre vite, a cui una ritrovata leggerezza – quando sarà terminata l’ansia del Covid – non potrà che fare bene. Se queste ritrovate consapevolezze possano rendere migliori, sopravvivendo più del virus a questa lunga quarantena, è presto per dirlo.
“Se ci rimettessimo in piedi – scrive Raffaele Schettino – per tornare quelli di prima, allora sarebbe il caso di restare in ginocchio e lasciare il futuro alla natura e alle specie che hanno dimostrato di saper evolversi”. Torneremo veloci e voraci o, piuttosto, custodiremo il dono di una dolorosa rivelazione? E ancora: sapremo ripensare i nostri equilibri con la natura, riusciremo a immaginare nuovi modelli di condivisione dello spazio che ci preservino da nuovi, inevitabili contagi e, quel che più conta, restituiremo al sistema sanitario la centralità più volte messa in discussione negli ultimi decenni? Dubbi concreti, immediati, ingombranti. Necessari, direi. Intanto lo sciame di api è lontano, si sente ancora – impercettibile – il ronzìo della natura. I merli tornano al nido: lo so, lo vedo, non c’è distrazione che tenga.
(*GiornalistaLa Repubblica)