Raffaele Schettino
Quelle parole a malapena pronunciate da George tra la terra intrisa di ingiustizie e la morsa della prepotenza non potevano che accendere la rivoluzione dall’altra parte del mondo, e ovviamente non potevano che innescare l’indignazione da quest’altra parte del globo. Quel «Non respiro» ha incarnato all’improvviso la nostra terribile sensazione di oppressione, ha scatenato la nostra rabbia. Ci ha spalancato gli occhi. Succede così dalla notte dei tempi: l’uomo ha bisogno di una scintilla per scuotersi. Magari una frase, una tragedia, un torto indicibile, un’immagine insopportabile, appunto. Come quella di George che muore. Poi, lentamente, il fuoco della protesta si spegne, la mente si riabitua alla realtà e si torna refrattari. Alla fine, l’unica cosa che si muove è sempre e solo l’asticella del «possibile», e ogni volta scatta pericolosamente in avanti. La morte di George Floyd, l’afroamericano di Minneapolis soffocato dal poliziotto in ginocchio su di lui dopo averlo ammanettato, è stata quell’immagine devastante che ci ha colpito forte nello stomaco. Oggi fa male da impazzire, ma prima o poi, purtroppo, la dimenticheremo, così come abbiamo dimenticato tantissime altre, compresa quella di Aylan, il bambino siriano con la maglietta rossa a testa in giù sulla spiaggia. Nel frattempo, i migranti continuano a morire e in futuro gli uomini continueranno a patire le violenze più atroci per mano di altri uomini. Noi, intanto avremo già voltato pagina. L’indifferenza avrà spento i roghi della contestazione e avrà soffocato anch’essa un altro vagito di un progresso culturale che non diventa mai adulto. Torneremo ipocriti sordi. E del resto, a pensarci bene, «Non respiro» è un urlo di oppressione che abbiamo sentito già migliaia di volte, e che migliaia di volte abbiamo già dimenticato o, peggio ancora, ignorato.
Le stesse parole a malapena pronunciate da George poco prima che sopraggiungesse la morte, per esempio, le ha urlate Nicholas che a Gragnano è venuto su tra esempi sbagliati e miti malati. Aveva 17 anni ed è morto dopo aver perso quattro litri di sangue per una coltellata. Nicholas era nostro figlio eppure abbiamo lasciato che si perdesse nel labirinto dell’illegalità, che emulasse gli idoli delle fiction, solo che mentre in Gomorra i ragazzi col petto sventrato dal piombo si rialzano e tornano alla vita, nelle realtà della nostra provincia, dove la cultura latita, lo Stato abdica alla sua funzione, la scuola fallisce e noi continuiamo a girarci dall’altra parte, i ragazzi restano stesi sull’asfalto, senza vita. Anche Nicholas urlava invano, e nessuno di noi gli ha insegnato quanto straordinaria potesse essere la vita.
E invano urlano ogni giorno centinaia di famiglie ostaggio della camorra in un territorio in cui vivere può pure diventare un lusso. Pur di non chiudere bottega, o drammaticamente pur di curarsi o sfamare i propri figli, c’è chi s’abbandona nelle braccia del crimine, che all’inizio ha il volto del benefattore e pian piano assume i tratti disgustosi del boia. Urlano «Non respiro» anche le donne massacrate di botte, i diversi ghettizzati, gli anziani soli, i poveri emarginati, i disoccupati umiliati, i bambini con l’infanzia rubata, i medici aggrediti in corsia, i professori minacciati in classe, gli imprenditori taglieggiati.
Urla «Non respiro» la nostra terra, violentata dai veleni e soffocata dal cemento. Che frana. Che muore. E noi restiamo immobili. Noi siamno sordi. Noi non ci indigniamo. Non accendiamo roghi. Non trasciniamo in strada la nostra rabbia. Perché un conto sono i commenti e i like che postiamo comodamente seduti sul divano di casa, un altro conto sono le battaglie da condurre in carne ed ossa. Cioè, una cosa è l’ipocrisia, un’altra è il coraggio.