C’è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui Ciro scorrazzava in motorino tra i vicoli di Torre Annunziata. Interi pomeriggi con gli amici e poi, quand’era sera di calcio, tutti a casa per godersi assetati i gol dei giganti in tv. Biondo. Scugnizzo. Claudicante in dizione e in grammatica. Tre volte a settimana portava il borsone in spalla e dribblava i coetanei della scuola calcio “Torre Annunziata 88” mentre i calzettoni gli si abbassavano sui polpacci. Era bravo, certo, ma in tanti erano convinti che prima o poi sarebbe arrivata l’ora di imparare un mestiere per tirare avanti, come capita a tantissimi altri ragazzini ai quali il calcio, in maniera beffarda, regala soltanto il gusto di un sogno irrealizzabile. Vallo a immaginare che un ragazzino della provincia di Napoli potesse arrivare ad alzare la scarpa d’oro nell’era di Messi e Ronaldo. Vallo a immaginare che potesse arrivare a prendersi un posto nella storia del calcio italiano ed europeo.
Nemmeno nel più audace dei sogni si poteva osare tanto. E invece è successo. Il destino lo ha voluto campione. Ciro è lo spot perfetto di “uno su mille ce la fa” e a leggerla oggi, la sua è una straordinaria storia di sport e di vita che un po’ riscatta anche una terra maledetta nella quale le occasioni di successo arrivano con il contagocce. E non per tutti. Ironia della sorte la sua storia si compie al San Paolo di Napoli, venti chilometri da casa, nello stadio che fu di Diego e che, se il mondo avesse girato nel verso giusto, sarebbe stato anche il suo. Ma il Napoli l’ha sempre ignorato come ha ignorato spessissimo i talenti vesuviani costretti a fare le valige per sfondare. O anche soltanto per provarci. Anzi, fosse stato per Aurelio De Laurentiis (un po’ torrese anche lui, ma non con il senso di appartenenza che aveva suo padre Dino), Immobile sarebbe stato un rimpianto. Magari un buon ristoratore, oppure un ragioniere tra mille scartoffie. Per il presidente del Napoli persino gli undici milioni del suo cartellino, quando Immobile non era ancora Immobile, erano troppi al punto da lasciarlo prendere a Lotito per poco più di 9. Ma Ciro è nato sotto una buona stella, la miopia di chi interpreta il calcio con la ragione dei bilanci e non con il cuore per fortuna non gli ha spezzato le ali.
C’è chi lo ha saputo valutare in prospettiva, e non è stata nemmeno la Juventus, stranamente, che lo aveva acquistato per 80mila euro infilandolo nella squadra Primavera. Eppure in bianconero Immobile era più di una giovane promessa, aveva strappato applausi in due tornei di Viareggio segnando una doppietta e una tripletta nelle due finali vinte di fila contro Samp ed Empoli. A Torino arriva solo la gioia dell’esordio in Champions League dopo la prima in A a 19 anni contro il Bologna. La sera dell’esordio in Europa (era il 25 novembre 2009 quando entra al posto di Alex Del Piero al 68′ di Bordeaux-Juve) Ciro promette di regalare la sua maglia ai ragazzi dell’orfanotrofio della sua città. «Non dimentico la mia terra e chi soffre», dice. In effetti la maglia va all’asta nella Basilica della Madonna della Neve e frutta un po’ di soldi che servono per finanziare le attività sociali. Quello fu solo il primo piccolo grande gesto di un ragazzo che non s’è mai allontanato dai suoi principi e che non ha mai dimenticato le sue radici. A Ciro nessuno regala nulla, però. Per sentire un po’ il profumo dell’erba lo scugnizzo di Torre Annunziata che aveva fatto le ossa al Sorrento si trasferisce prima a Siena e poi a Grosseto, quindi arriva nel Pescara dei miracoli di Zeman al fianco di Verratti e Insigne, che oggi sarebbe effettivamente un bel trio da Champions. È una serie B, ma va bene uguale.
Ciro dimostra di saperci fare vincendo il titolo di bomber con 28 gol in 37 partite ai quali si aggiungeranno i 5 con il Genoa e i 27 sotto la Mole, ma stavolta sulla sponda granata del Toro. Dagli inizi ad oggi, la Juventus è rimasta un rimpianto (Agnelli non ci ha mai puntato, commettendo uno dei pochi sacrilegi del suo decennio scudettato), il Napoli un’occasione persa, il Borussia Dortmund e il Siviglia, dove Immobile ha tentato la fortuna da emigrante, due scelte sbagliate (5 gol in tutto), la Lazio, invece, è stata una manna dal cielo. L’ambiente ideale nel quale Immobile è diventato simbolo. Come, anzi più di Giorgione Chinaglia. Tutto meritato a suon di gol: 103 in 142 partite. Tutto conquistato con l’umiltà e il lavoro: capocannoniere della serie A negli ultimi tre anni e miglior bomber dell’Europa League nel 2018. Ciro ha dato alla Lazio, la Lazio ha dato a Ciro che oggi è una macchina da gol (221 in 434 partite in carriera fino ad oggi) che vale ben oltre i 60 milioni di euro. «Se ci credi ce la fai», dice Immobile ai suoi amici di sempre. E lui ne è un esempio. Trentasei gol in in solo campionato, come Gonzalo Higuain versione partenopea. Un record da almanacco, un’impresa che resterà nero su bianco per sempre, come tutte le imprese leggendarie. Anzi, forse anche più di tutte, perché realizzata nell’anno più duro e caotico del calcio. Iniziato, sospeso, poi ripreso, sempre in bilico per il maledetto Covid che ancora uccide e non va via. Ciro ha battuto campioni del calibro di Ronaldo, Messi e Lewandovski. Ha scritto il suo nome nella storia. Trentasei gol in un campionato al netto di quelli in coppa. Nel tunnel del San Paolo, sabato sera, gli hanno stretto la mano in tanti, lui ha sorriso a tutti. Qualcuno gli ha sussurrato: «Ciro, ora riporta in alto l’Italia». E lui può farlo (10 gol in 39 gare finora). Sarà il prossimo obiettivo l’Europeo cancellato dalla pandemia e rimandato alla prossima estate, però adesso è tempo di godersi il record di gol e, diciamolo pure, di smaltire un cruccio: uno scudetto possibile svanito nei giorni del lockdown nonostante la peggiore Juventus degli ultimi nove anni. «Peccato», ammette Ciro. Ma in fondo la perfezione non esiste. O almeno non ancora. Chissà, magari il prossimo anno.