Un abitino rosso di velluto. La voglia di stringere forte il suo papà e quella raffica di proiettili che uccidono anche sua madre sotto gli occhi di una bimba che non sa di essere la figlia di un camorrista. La rabbia e la speranza scorrono nell’inchiostro della penna di Mariapia Vitiello, una studentessa del Liceo Linguistico Pitagora-Croce di Torre Annunziata. Cento righe per indurre a pensare. Quattromila parole per gridare che fare il camorrista non conviene. Lo scritto è stato scritto in occasione del progetto “Fare il camorrista non conviene” bandito dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Direzione Scolastica Regionale per la Campania e letto durante la giornata nazionale de La Scuola in piazza. Una pagina estratta dal diario di Tullia, figlia di un camorrista che su quel foglio esprime tutto il suo dolore. “Caro diario – scrive la giovane studentessa – è da quando sono nata che vivo qui a Napoli. Ricordo che mia madre mi raccontava che Napoli era la città del sole. Quando andavo a scuola, m’accorgevo che non ero ben voluta, neppure dai bambini. Non avendo amici, mi sentivo ancor più sola quando, nel cortile di quella scuola a me così tanto estranea poiché non riuscivo a condividerne i momenti e le attività, si organizzavano girotondi e si cantavano all’unisono canzoncine. Avevo, ogni giorno di più, la sensazione che fossi emarginata da tutti, ma non ne comprendevo il vero motivo”. Una ragazza come le altre quella che descrive la giovane studentessa del Pitagora-Croce dove i regali materiali non hanno mai sostituito quello che invece le mancava per davvero. “Vedevo di rado mio padre – si legge ancora – dai racconti di mia madre, era fuori per lavoro, ma un giorno, sarebbe ritornato”. Ma non fu così. “Una cosa però mi turbò: il cielo cominciava a diventare grigio, lo stupore e la meraviglia furono strappate dal mio viso da un colpo di pistola: due uomini con atteggiamento spavaldo estrassero una pistola che indirizzarono al cuore di mia madre. Il suo sguardo, per un’ultima volta s’incrociò con il mio, ma il mio pensare da bambina non mi permise di capire che quella era proprio l’ultima, di volta. E come quando il sole si ritira e lascia spazio alle nuvole, il mio sorriso ingenuo lasciò spazio ad un pianto soffocato dal silenzio. Un silenzio che comunicava parole nuove, parole mai dette. Solo allora capii che ero figlia di un camorrista. Mio padre non è mai più ritornato ed ho saputo della sua morte mentre ascoltavo le notizie alla tv. La mia unica colpa era quella di essere figlia di un uomo che aveva sbagliato strada. Un camorrista spietato che non aveva saputo cogliere i valori fondamentali della vita, senza rispetto ed amore, condizionando la nostra vita, relegata in un castello destinato a crollare. Adesso resta di me una donna che cerca di cancellare il suo passato ma che, per la gente, resterà per sempre la figlia di un camorrista. Perché la camorra uccide non solo con i suoi gesti, ma anche con i suoi silenzi, sottrae la vita, toglie l’aria, imprime un marchio, indelebile. No, fare il camorrista non conviene». «Ragazze come Mariapia -spiega il presidente di Libera Michele Del Gaudio- vanno incoraggiate è la prova che i giovani non sono solo superficiali, teppisti e drogati».
CRONACA
3 giugno 2016
Torre Annunziata. Studentessa premiata dal Miur: “Non conviene fare il cammorrista”