Per anni il loro cognome ha rappresentato l’emblema della camorra sanguinaria e spietata. Per decenni è stata una “parola” da pronunciare sotto voce, perché nei vicoli la paura dei boss si misura anche con i decibel. Oggi quel nome è un grido, una voce squillante che dal microfono batte sulle pareti di un’aula di tribunale per raccontare la fine di un’era, la morte di un clan.
«Antonio Birra è il nuovo pentito della camorra di Ercolano», le parole pronunciate a chiare lettere – davanti ai giudici della quarta sezione della Corte d’Assise del tribunale di Napoli e al pubblico ministero Claudio Siragusa – dal maresciallo capo Angelo Disanto della compagnia carabinieri di Torre del Greco. Non era mai successo che un camorrista con quel cognome passasse dalla parte dello Stato. Né tanto meno che il fratello di un boss del calibro di Giovanni Birra – il padrino di corso Resina, attualmente recluso al carcere duro – vuotasse il sacco, tradendo anche il suo sangue. La decisione annunciata nel corso del processo unificato su 3 omicidi della guerra di camorra – delitti costati la vita a Salvatore Oliviero, Antonio Papale e Giorgio Battaglia – è un terremoto che travolge i camorristi da Ercolano a Miano, da Torre del Greco a Torre Annunziata, i confini dell’incredibile rete di alleanze e rapporti costruiti dalla cosca della Cuparella negli anni della guerra agli Ascione-Papale. Si, perché oltre a essere il fratello del padrino, Antonio Birra è stato per anni un vero e proprio reggente della cosca. Uno che ordinava agguati e omicidi, massacri e raid punitivi. Un uomo di punta della cupola gestita assieme al fratello Giovanni e a Stefano Zeno. Lo dimostrano i due ergastoli incassati per gli omicidi di Ciro Cozzolino, ucciso a Prato nel 1999, e di Costanzo Calcagno, massacrato a Ercolano nel 2001 nell’ambito della guerra tra i Birra e i “Bottone”.
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