«Non pensate al carcere com’è oggi, tra il 1980 e il 1982 a governare il penitenziario erano i detenuti. E fu allora che scoprì la Cella Zero». Pietro Ioia oggi di anni ne ha 50, gran parte dei quali spesi dietro le sbarre a lottare per i diritti dei carcerati. È stato lui a squarciare il velo di omertà sugli abusi a Poggioreale. Lui a firmare un esposto in Procura che ha portato all’apertura di un’inchiesta che ad oggi conta 23 indagati: 22 agenti della polizia penitenziaria e un medico. «Quando entrai per la prima volta a Poggioreale mi chiesero se appartenevo alla Nco o alla Nuova Famiglia. Era una domanda di prassi perché in base alla mia militanza camorristica mi avrebbero assegnato al padiglione giusto. Un modo per evitare di finire in pasto ai rivali – spiega Ioia – io era finito dentro per droga ma non ero un camorrista, ero un ragazzino di 20 anni. Dissi che ero di Forcella e allora mi misero nel Padiglione Salerno, quello governato dalla Nuova Famiglia». Erano gli anni in cui nelle celle dei penitenziari i clan regolavano i conti che fuori non era stato possibile portare a compimento. «Ci fu una sparatoria… sì, perché a Poggioreale ci stavano le armi e si sparava. Il giorno dopo fu l’inferno». Pietro Ioia racconta di come finì a fare il «fodero». «Era il compito assegnato ai detenuti più giovani. Si trattava di nascondere le armi per conto del boss del padiglione, ecco perché ci chiamavano foderi. Il giorno dopo la sparatoria venne una squadretta di secondini. Li chiamavano Gom, a me sembrarono teste di cuoio. Non li avevo mai visti. Spararono lungo i bracci del padiglione… sì, hai capito bene, spararono pure loro. Poi ci fecero allontanare dalle celle e ci portarono al piano terra nelle “compresse”. Per quindici giorni, senza l’uso dei bagni». Le “compresse”, racconta Ioia, erano stanzoni per la detenzione temporanea. Almeno questo doveva essere sulla carta. Per raggiungerle si doveva passare tra due ali di giovani agenti, «erano gli allievi della Scuola di Polizia Penitenziaria di Portici, li portavano lì perché dovevano imparare» dice Ioia. Per Pietro e altri compagni furono l’anticamera della Cella Zero. «Un giorno mi presero e mi ammanettarono dietro le spalle. Mi infilarono un cappuccio sulla testa e mi trascinarono per diversi metri. Non vedevo nulla ma sentivo che stavo percorrendo un corridoio. Quando mi liberarono la testa ero in una cella stretta e senza finestre. Davanti a me uno sgabello di ferro. Alzai lo sguardo e vidi un cappio illuminato da una lampadina rossa. “Ioia ora è meglio che parli altrimenti ti impicci”, mi disse una guardia, un graduato. Capì subito che avrebbero simulato il mio suicidio e parlai, dissi dove erano le armi. Questa era la Cella Zero».
CRONACA
13 agosto 2016
Napoli. Carcere, il racconto-choc: «Ecco cosa accade nella Cella Zero»