La metamorfosi evolutiva del mondo del pallone ci sottopone, quotidianamente, aspetti inusitati riguardanti uomini e ruoli. Emergono figure dall’aspetto pretestuosamente assolutistico. Pretenzioso. Contraddittorio. Una classe emergente di giovani allenatori che tende a mandare in pensione la tradizione. Fatta di qualità umane e tecniche, appartenute a grandi panchine del passato. Una su tutte, da citare come esempio. Il “vecio paron” Nereo Rocco, capace di esaltare il lavoro di quanti, nelle varie branchie operative, collaboravano accanto a lui. Senza, in questo, mai invadere i campi delle altrui competenze.
L’allenatore era un “maestro”. Di calcio e di vita. La sua giornata era fatta di campo e di spogliatoio. Metteva la sua esperienza a disposizione nella composizione dell’organico. Sapeva come voleva far giocare la squadra e cosa pretendeva dai suoi “ragazzi” una volta scesi in campo. Suggeriva ruoli e caratteristiche. Lasciava però ad altri, all’uopo preposti, la scelta degli uomini. Un lavoro fatto di sinergie e collaborazione. Tutti utili portatori di acqua alla causa aziendale.
Una nuova linea di pensiero che appartiene ad un gruppo di tecnici rampanti, peraltro ancora a digiuno di successi, cerca oggi di stravolgere una consuetudine, consolidata, fatta di tempi e metodi. Di vittorie. Sistemi che negli anni hanno portato al successo Trapattoni, Sacchi, Capello, lo stesso Lippi. Schegge stonate di un calcio che non ha motivo di essere. Tutti con la voglia pretestuosa di dettare legge in casa di altri. Nelle altrui tasche. Tutti con la prerogativa di scoprirsi più manager, senza averne qualità e titolo, che allenatori. Una categoria di tecnici, purtroppo emergente, che tende ad emarginare chiunque ricopra ruoli operativi all’interno dell’azienda calcio. Presidenti inclusi.
Il classico faccio tutto io. Ricorrendo a “mezzucci” di puerile comportamento. Che dire: la cenetta, da carbonari, con la parte più esperta dello spogliatoio. La telefonata “confidenziale” al calciatore desiderato per rassicuralo sull’entità dei suoi guadagni. La maniera “subdola” di far circolare, tra i tifosi, il gossip di qualche mancato arrivo di calciatori. In questo addossando responsabilità a dirigenti e collaboratori della Società, all’uopo incaricati. Il modo più “bastardo” per mettere in cattiva luce la proprietà ed i colleghi di lavoro. Nell’era dei social, un coro di contestazione che si alza o lo striscione denigratorio, esposto in bella vista sugli spalti, fa il giro del mondo in pochi attimi. Poco conta se il tuo presidente ti ha messo a disposizione una fuori serie con la quale, per tua stessa asserzione, avresti dovuto sbaragliare tutti i campi.
Questa nuova categoria di allenatori pensa di arrogarsi i meriti della eventuale vittoria. Dimentica, con troppa facilità, che i successi, nel calcio, sono frutto di un lavoro comune, di una applicazione complessiva del gruppo e che il “tocco” finale lo da sempre la Società.
Tra i tecnici che hanno lavorato con me, ne ho avuti anche di questo tipo, uno in particolare, per accattivarsi le simpatie dei tifosi, ad ogni marcatura della nostra squadra, mi scappava dalla panchina e, con una corsa all’impazzata, si fiondava sotto la curva. Era la sua maniera per dedicare il gol. Un “lecchinaggio” che esaltava certamente gli ultrà. Sapeva di offendere dirigenti ed i suoi calciatori, verso i quali dimostrava di non avere alcun rispetto, ma la cosa non sembrava mai lo riguardasse.
Quelli dell’ultima generazione citata, che appartengono appunto al “partito” del faccio tutto io, si ritengono ancora più scaltri. Hanno amicizie influenti tra la stampa che conta. Usano l’amico più caro per far filtrare la notizia del ritorno clamoroso. Ricorrono, per proprio tornaconto, alle pressioni che possono creare le manifestazioni populistiche di piazza. Fanno esporre lo spogliatoio nei confronti della Società. La frase più sciocca, di qualche giocatore, è quella del… senza di lui me ne voglio andare.
Dimenticano, quei “Ferguson rampanti”, di aver portato l’ambiente all’esasperazione. Di essere gli artefici di una frattura, tra tifosi e dirigenti, che potrebbe indurre questi ultimi all’abbandono. Si perché la passione sino a un certo punto!
Dopo di che prevale la politica aziendale. Fatta di impegni finanziari e di scadenze. Di budget. Ed al proposito non risulta, sino ad oggi, che i calciatori passino da casa del loro allenatore, ogni fine mese, per incassare gli stipendi!
Ogni riferimento a fatti o persone non è puramente casuale!