Torre Annunziata. E’ buio a casa di Maria. Le finestre dell’appartamento sono chiuse e si intravede a stento la luce. I raggi del sole riescono ad attraversare a malapena le persiane di legno e illuminare il carillon sul davanzale della finestra. «Me lo ha regalato mia madre quando avevo sette anni, è l’unica cosa che riesce a cancellare i pensieri brutti dalla mia mente». Marianeve si avvicina. Muove la corda. La melodia inizia a diffondersi nella stanza e quando la ballerina di porcellana inizia a girare Marianeve sorride.
Oggi ha 52 anni e quella bambina che si entusiasmava con poco è diventata una donna, una mamma, una moglie. Ma non è quella che sognava di diventare. Trentacinque anni di violenze sessuali e psicologiche, dodicimila giorni di sofferenze, di lacrime e paure hanno rovinato la sua vita. Il suo volto stanco e provato ne è una prova: non è il tempo ad aver solcato gli anni su quel viso, ma l’inferno che le ha distrutto la vita. Non osa raccontarlo, il solo pensiero di confidare la sua vita in quella gabbia la fa tremare e così dal cassetto tira fuori cinque quaderni.
Sono appunti messi nero su bianco su semplici quaderni scolastici. «Ho raccontato qui la mia vita». Decine di pagine nelle quali Marianeve descrive i suoi giorni all’inferno. L’inferno è il tetto coniugale, la gabbia è il suo matrimonio. La storia della sua vita parte da quando aveva 19 anni: «Ho sposato quell’uomo ma non lo amavo, ero incinta e non avrei avuto nessuna altra alternativa».
E’ l’inizio della sua condanna. Costretta a sposare un orco: «anche oggi mi ha picchiato – si legge nel quaderno – è tornato a casa, voleva fare l’amore ma io non volevo. Non voglio più che mi tocca. Non voglio che le sue mani mi scivolino addosso». Poi descrive la notte di violenza sessuale: «eravamo soli a casa, ne ha approfittato, i miei figli erano da mia madre, mi ha immobilizzato le mani con la cravatta, io urlavo per il dolore, più provavo a respingerlo e più mi picchiava».
E ancora: «Oggi ha detto che voleva regalarmi una serata: non mi sentivo bene, stavo male mi sono rifiutata di uscire, mi ha rinchiuso tutta la notte in bagno». Marianeve affida a quei quaderni le sue giornate. La sua casa diventa la sua «prigione», vuole spezzare le «catene» ma non ci riesce e così paragona la sua vita a quella di un uccello in gabbia: «so che posso volare, ho le ali, ma quando provo a prendere il volo non ci riesco». Cicche di sigarette spente sulle braccia, occhi neri e capelli tagliati. Costretta a vestire un determinato modo, a rompere i rapporti con i suoi amici, con i suoi familiari. Senza un lavoro, con la paura di denunciare per paura di morire «se ti permetti di fare il mio nome ti ammazzo».
Per 35 anni Marianeve ha subito ma ora sta provando a volare. Un lavoro, una nuova vita, lontana da Torre Annunziata ma ha paura. L’ultima pagina è datata ottobre 2015 quando ha deciso di mettere un punto. Ha portato via i suoi figli e si è rifugiata casa di un’amica. Ora prega Dio che lui non li trovi: «Voglio riprendere la mia vita, voglio tornare a sorridere, voglio la mia dignità, rivoglio la mia libertà»