Il pennello scivola lentamente sulla tela. Una goccia di rosso, poi il bianco, una manciata di giallo e infine l’azzurro. Colori forti, vivi, caldi: non c’è spazio per il nero o il grigio, «sono solo tonalità tristi, servono ad immortalare la notte, ma qui è sempre buio, quindi meglio la luce».
Intere giornate trascorse davanti a una garza bianca, mattinate passate a miscelare colori, a disegnare e verniciare, a scegliere la velatura perfetta o il pennello giusto, per dare forma a personaggi di una realtà rimasta ferma al 1991. Il tempo si è fermato per Tito Tammaro. Le lancette del suo orologio si sono bloccate all’8 novembre del 1991 quando ha varcato la porta del carcere di Secondigliano. Per lui i giudici hanno sentenziato «fine pena mai».
Ergastolano per 416 bis, detenzione di armi e droga, omicidi e estorsioni. Tituccio era il braccio destro di Valentino Gionta, il capo storico e fondatore del sodalizio criminale di palazzo Fienga. Un’amicizia “scomoda” che sta pagando in cella. Oggi rinchiuso nel carcere di Spoleto continua a dipingere. Lo fa senza fermarsi da oltre 25 anni, non ha altro a cui aggrapparsi e reinventarsi artista è l’unica via di uscita per trascorrere il tempo. Lo scorso anno, a una mostra nel Museo Nazionale del Ducato di Spoleto, ha esposto nove dei suoi dipinti, per tre giorni. Ora quei quadri vengono messi in vendita. O meglio questa sarebbe la richiesta che l’ergastolano ha avanzato per devolvere il ricavato a chi ne ha bisogno, sostenendo magari i bambini del reparto di oncologia. Una richiesta che per ora resta congelata, come quella di poter partecipare alla mostra che già lo scorso anno gli fu negata. «L’ergastolo vuol dire ammazzare la vita non solo di chi lo sconta, ma anche dei suo affetti più cari» urla dalle colonne del suo blog l’ex soldato dei Valentini.
Tammaro disegna bambini che si tengono per mano mentre passeggiano sorridenti ma nei dipinti ci sono anche volti tristi, i volti dei suoi familiari, della nonna e anche sua nipote. Nei suoi quadri c’è la voglia di riscatto ma soprattutto quella di respirare la vita reale, non quella racchiusa nei suoi sogni. Disegni dolci, carichi di significato e dove gli orrori della camorra, gli anni della faida, non compaiono. Come se quell’uomo non avesse mai avuto a che fare con la criminalità nonostante non si sia mai voluto pentire.
Da killer a pittore, dalle pistole e dai carichi di cocaina a pennelli e colori. Ma non solo: in cella Tituccio ha anche scritto un libro in versi, insomma un artista come il boss-poeta Aldo Gionta che da tempo ha scritto una commedia teatrale. Capi spietati che diventano romanzieri. Un modo forse per ripulirsi in parte la coscienza. «Quando i colori del cielo ogni giorno accendono la loro luce, io mi ritrovo stano nelle ore dei loro trascorsi, e vorrei che i miei affanni fossero ripagati dal mio impegno nell’inseguirli, e di non essere soffocato nei loro inganni. Amo la mia vita, nonostante i mali che l’affliggono. Vorrei essere un uragano, e con tutte le mie forze scacciare via tutti i suoi mali, che fanno dei suoi vissuti il dolore più immane» scrive il killer-pittore. Non chiede perdono, non lo ha mai fatto, non si pente di aver impugnato armi, di essersi sporcato le mani di sangue. Ma ora spera in un’altra vita: ritornare utile per chi soffre. Vendere le sue opere e donare il ricavato per i bambini, i poveri, a chiunque, così da dare una speranza in più per continuare a sopravvivere. Anche per lui, dietro le sbarre. Per sempre, fino alla morte.