Ercolano. Se non fosse per lui, forse, la terra dei fuochi del Vesuvio sarebbe ancora una leggenda metropolitana. Le discariche dalla camorra, la strage dei tumori e l’acqua avvelenata, sarebbero rimasti lì, sepolti sotto 4 metri di terreno e 40 anni di omertà.
Ma padre Marco Ricci, sacerdote della chiesa del Sacro Cuore di Ercolano, non si è voltato dall’altra parte, come per decenni hanno fatto i politici, gli affaristi e i codardi. Si è sporcato le mani, come dovrebbe fare un prete coscienzioso che combatte per i suoi fratelli. Ha scavato a fondo nell’anima di una terra stuprata da imprenditori senza scrupoli e criminali spietati. Prima con le parole, poi con le mani. Facendo conoscere al mondo la storia della terra dei fuochi del Vesuvio, l’enorme distesa di rifiuti tossici che puzzano di camorra piazzata nel ventre del vulcano.
«Non mi riuscivo a spiegare come fosse possibile che in una piccola comunità morisse così tanta gente». Il massacro silenzioso non risparmia nessuno: donne, anziani, bambini. E don Marco decide di indagare, di capire quanto c’è di vero dietro le mille voci che si rincorrono nei vicoli. Le sue omelie sono uno schiaffo in faccia a chi ha avvelenato questa terra. Le parole sono talmente pungenti che un giorno – nel segreto del confessionale – un fedele gli racconta di aver sepolto tonnellate di rifiuti tossici in una cava di via Barcaiola. Don Marco non ci dorme la notte. Poi il giorno dopo va dai carabinieri. Grazie a quelle parole verrà scoperta la più grande discarica di rifiuti tossici interrati mai ritrovata negli ultimi 20 anni da queste parti. Oltre 100 fusti di amianto sepolti nel terreno, a due passi da un campo di pomodori. Il mondo prende coscienza del dramma e anche la magistratura. Pochi mesi dopo grazie alle parole di Ciro Gaudino, pentito del clan Ascione, verrà scoperta un’altra pattumiera di rifiuti pericolosi: «Questa era la discarica della camorra», dirà l’ex assassino.
Padre Marco continua, insiste. Chiede la bonifica delle cave inquinate, organizza marce e messe per i morti di tumore. Combatte per spegnere i fuochi che devastano il Vesuvio in estate. Viene accusato di impegnarsi troppo, di cercare pubblicità. Ma il sacerdote non si ferma davanti alle “malelingue” e porge l’altra guancia. Nei giorni scorsi gli è arrivata una telefonata da Casale Monferrato, la città dei morti di amianto. «Legambiente l’ha scelta tra i finalisti del premio “Luisa Minazzi” come ambientalista italiano dell’anno».
Il respiro si ferma per un attimo. A votare saranno i cittadini attraverso il un forum via web. Ma è già una piccola vittoria. «Sono soltanto un sacerdote – ripete in un mix di emozione e timidezza – E’ comunque importante. E’ un riconoscimento nazionale di un impegno profuso laddove i tuoi cittadini per tanto tempo ti hanno denigrato. Io mi aspetto che qualcuno dirà ancora che è solo un modo per apparire. Ma io vado avanti. L’importante è portare avanti una causa. La candidatura non doveva andare solo a me, ma a tutto il gruppo del Comitato “Salute, Ambiente, Vesuvio” che da anni combatte per la nostra terra». Proprio come lui. Il sacerdote che ha scoperto l’inferno in quell’angolo di paradiso. Che ha combattuto e combatte per la verità. Per difendere la sua città e chi ci vive. Scavando, con le mani e con le parole, sotto quattro metri di terreno e 40 anni di silenzi.