Quando scrive il nome della sua famiglia sul taccuino, Moussa Bah quasi non riesce a trattenere le lacrime, ripensando ai suoi fratelli e ai suoi genitori rimasti nella sua terra “devastata dalla guerra e dalla fame”. E’ arrivato in Italia un anno e mezzo fa. “Ho camminato a piedi e con passaggi di fortuna in auto per tre mesi dal Niger alla Libia per imbarcarmi ed arrivare a Catania, poi a Taranto e infine a Napoli dove spero di restare”. Alcuni suoi compagni non ce l’hanno fatta, scuote la testa. Raccontare è una ferita che brucia ancora. “Io sono vivo – ripete – e spero di poter aiutare un giorno anche la mia famiglia”. Per mesi ha lavorato a nero nelle campagne di Salerno. “Mi pagavano 20 euro per raccogliere fiori dalle sette di mattina alle otto di sera”. Guarda piazza del Plebiscito, che diventa immensa nei suoi occhi che hanno visto troppo a soli 34 anni. Ma non abbastanza da impedirgli di lottare. “Quando sono arrivato al centro di accoglienza il cibo era pessimo e non ci trattavano bene – racconta – e ho cominciato a ribellarmi”. Ad aiutarlo i ragazzi dell’ex Opg. “Oggi sono loro la mia famiglia” dice senza nascondere di volerne una tutta sua un giorno. “Sono mesi che aspetto per il permesso di soggiorno, ma non ho saputo più nulla. Non mi arrendo però ce la metterò tutta per vivere onestamente in questa città e ho già trovato un lavoro, racconta fiero. “Farò il benzinaio e il proprietario mi ha promesso un contratto”, dice sorridendo. La sua umiltà e il suo entusiasmo fanno ancora più male ascoltando le condizioni disumane in cui sono tenuti molti immigrati come lui nei centri di accoglienza di Napoli e provincia.
“Erano mesi che chiedeva un medico, qualcuno che lo visitasse. Aveva dolori fortissimi all’addome. Poi un giorno maledetto, d’improvviso, si è accasciato a terra. Magari se qualcuno l’avesse ascoltato sarebbe ancora qui”. Kalifa ha lo sguardo fisso davanti a sé e racconta senza fermarsi neanche un attimo. Forse è colpa di quell’inglese scolastico, la sua voce sembra quasi gelida, senza emozione. Ma non è così. Scappato dal Gambia, ha visto la morte in faccia anche qui, senza poter fare nulla. Prima Doibbi investito da un’auto su quella strada mortale dove sorge il centro accoglienza che lo ospita, Villa San Giuseppe a Giugliano, in un edificio isolato. Altri ragazzi, in tutto già sette, entrando e uscendo dal centro, sono rimasti feriti perché le auto lì corrono veloci. Poi ad agosto è stata la volta di Abudu che da mesi chiedeva di essere visitato. “Ma non è mai arrivato nessuno”. Nessun medico, nessuna assistenza legale per gli immigrati che come lui sperano di trovare accoglienza nei cas, ma che spesso vivono in condizioni disumane. “Al centro siamo in 67” racconta, mentre gli altri ragazzi accanto a lui preferiscono restare in silenzio, in molti hanno paura. Lui no, anche per chi non ce l’ha fatta, vuole provare a cambiare le cose. “Ogni giorno ci chiediamo se riusciremo a mangiare e a non finire in fondo alla fila, perché per gli ultimi venti non ci sono pasti”.
Riso e pasta. Paste a riso. Sempre lo stesso cibo e insufficiente in centri che prendono 30 euro al giorno per ogni immigrato accolto, a cui però non garantiscono neanche il cibo. Condizioni disumane dal cibo alle medicine. E poi altro che integrazione. Di corsi di italiano, mediatori, assistenza legale, a volte neanche l’ombra. E le pratiche per l’iscrizione anagrafica o la richiesta di soggiorno non vanno avanti, così sono abbandonati in edifici, a volte anche isolati da tutto. I famosi pocket money il più delle volte non vengono neanche erogati. “Non abbiamo i soldi e così non possiamo parlare con le nostre famiglie, io sono mesi che non so come stanno i miei fratelli rimasti in Senegal” racconta Anthony, che come la maggior parte ha appena trent’anni e viene dall’Africa. Quello che definiscono il terzo mondo, anche se ascoltando le loro testimonianze terribili, per come vengono trattati, qui c’è da chiedersi quale sia il terzo mondo.