Le apparenze ingannano. È un luogo comune universale e sempre più d’attualità in una società dove l’immagine spesso si sostituisce alla sostanza, dove conta molto di più l’apparire, appunto, che l’essere. Diventare famosi pur senza possedere qualità particolari è un obiettivo perseguito da tanti, e i media offrono ghiotte occasioni per approdare alla celebrità senza alcuno sforzo. Ma c’è anche chi è rimasto terrorizzato quando, suo malgrado, ha conquistato una rapida popolarità. Come Gennaro Aiello dipendente del comune di Napoli, la cui faccia per qualche giorno è rimbalzata in tutti i telegiornali, su molti siti internet e su un discreto numero di giornali. Per quella improvvisa botta di fama, Aiello però ha rischiato la vita.
Da bambino sognava di fare il calciatore, un mestiere che regala soldi e fama. La vita non è andata esattamente come l’aveva immaginata nelle sue aspirazioni infantili, però poi alla fine di ottobre del 2009 lo hanno riconosciuto per strada, ha ricevuto telefonate e messaggi da parenti e amici che gli dicevano di averlo visto in tv. Ma l’inattesa ondata di popolarità non lo ha affatto gratificato, invece di esserne orgoglioso si è spaventato a morte, e il sogno della fama si è trasformato in un incubo. Tutta colpa di un clamoroso equivoco della magistratura, un abbaglio colossale che ha seriamente messo in pericolo l’esistenza di Aiello e dei suoi familiari.
Il micidiale fraintendimento inizia quando la Direzione distrettuale antimafia di Napoli decide di rendere pubblico il video di un omicidio avvenuto cinque mesi e mezzo prima, l’11 maggio, all’esterno di una caffetteria del rione Sanità. Lo scopo è invitare chi ha assistito al delitto per aiutare gli inquirenti ad individuare gli assassini. Nel video, ripreso dalle telecamere installate all’esterno e all’interno del locale, si vede un killer che prima entra nella caffetteria e poi dopo qualche secondo esce e spara alla testa di un pregiudicato, Mariano Bacioterracino. L’assassino poi si dilegua in tutta calma, ma il suo volto non è riconoscibile perché coperto da un cappellino con visiera. Le indagini non producono nessun risultato e i magistrati – con una iniziativa sulla quale ci sarebbe da discutere – decidono di diffondere il video (pubblicato sui siti web di molti quotidiani) per chiedere la collaborazione dei cittadini: «Chi ha riconosciuto il boia di Bacioterracino o possa contribuire a dargli un nome», questo in sintesi l’appello, «vada alla polizia o ai carabinieri per riferire ciò che sa». I testimoni sono tanti e la speranza è che almeno uno dotato di coraggio e senso civico decida di aiutare la giustizia a fare il suo corso. La diffusione del filmato, però, non ha solo lo scopo di incastrare il killer, ma pure di dare un nome ad un’altra persona che, secondo gli inquirenti, è coinvolta nell’agguato. Il secon- do soggetto da individuare è un uomo sui quarant’anni che come si vede bene nel video – al momento dell’omicidio è fuori dalla caffetteria, ha gli occhiali da sole appoggiati sulla fronte e indossa una camicia bianca. Quell’uomo è rimasto lì fino a quando non è arrivato l’assassino. I magistrati non hanno dubbi: è un complice e la mattina dell’11 maggio doveva indicare la vittima da abbattere. Lui e il killer si sono incrociati per un attimo, un istante sufficiente per scambiarsi l’informazione giusta con uno sguardo o un segnale convenzionale. Per tutti, dunque, il tizio con la camicia bianca e la sigaretta diventa il “palo” o lo “specchiettista”: sui giornali, sui siti web e nei telegiornali viene indicato come uno dei complici di un assassinio. Gli investigatori sono così certi che sia coinvolto che mentre i volti dei passanti e dei clienti del bar sono oscurati, il suo è ben visibile affinché qualcuno possa riconoscerlo. Per partecipare ad una condivisibile caccia al killer e al suo complice, i media si danno da fare e a tutte le ore i Tg trasmettono quelle immagini: un bombardamento impressionante, amplificato dai siti web, giustificato dalla necessità di aiutare la magistratura a incastrare due camorristi.
Purtroppo il comprensibile desiderio di risolvere un caso complesso ha provocato una imperdonabile svista: l’uomo indicato come il “palo” in realtà non è il “palo”; e con l’omicidio di Bacioterracino non c’entra assolutamente nulla. Quello che è oramai considerato un criminale, in realtà è soltanto un innocuo netturbino del Comune di Napoli: si chiama Gennaro Aiello, ha trentanove anni, è sposato ed è padre di due bambine. In quel video lo hanno riconosciuto tutti e i funzionari del Municipio per precauzione lo hanno sospeso dal servizio in attesa di capire come stanno davvero le cose. Aiello è terrorizzato dagli effetti prodotti dalla diffusione del filmato e decide di uscire allo scoperto per evitare ulteriori rischi. La sua paura più grande è che il clan al quale apparteneva la vittima dell’agguato Questura» alla Sanità possa ucciderlo per vendetta. Non è un timore infondato, il suo, perché a sua volta Bacioterracino è stato ammazzato per vendetta. E per sgombrare il campo da pericolosi equivoci pure Aiello, come la Direzione distrettuale antimafia, si rivolge ai giornalisti lanciando un appello: «Sono io quello che voi chiamate il “palo” o lo “specchiettista”. Sono quello che giornali e televisioni, definiscono il complice del killer di Bacioterracino. Invece vi chiedo di aiutarmi a uscire da questa follia».
La decisione di uscire allo scoperto gliel’ha suggerita il clima di sospetto che ormai lo circondava. Ai cronisti, poi, Aiello spiega: «Sono l’uomo del film, mai fatto il palo, ed ora ho paura. Per me è un incubo: quel video lo hanno visto in tutto il mondo. Persino dalla Germania mi hanno telefonato alcuni miei parenti. Adesso però ho paura. Non solo, ma rischio di perdere il mio posto di operatore ecologico. Per adesso mi hanno sospeso dal servizio ma cosa accadrà in futuro? Mia figlia di quattordici anni non sta andando a scuola, perché pensano che il padre sia un killer. È stata una follia diffondere quel video, hanno oscurato tutti i volti tranne il mio e di chi ha sparato. Ma io che cosa c’entro?».
Poi, nello studio del suo avvocato Sebastiano Fusco, racconta il suo dramma: «Vivo in via Vergini, la mattina dell’11 maggio prendevo una boccata d’aria. Stavo aspettando mia figlia per andare a fare compere. Dopo l’omicidio non ci siamo andati più, decidemmo di rintanarci in casa. Conoscevo appena la vittima del delitto, era uno del quartiere. Poi mi sono spostato, passando per l’unica via obbligata, cioè davanti all’uomo che verrà ammazzato. Quando ho visto il filmato non credevo ai miei occhi, poi mi sono fatto forza. Mi sono rivolto in Questura, dove mi hanno identificato e dove hanno assunto una mia deposizione spontanea. È accaduto di tutto. Sono andato a lavorare, turno notturno, i colleghi erano ammutoliti. Poi mi hanno sospeso in attesa di aggiornamenti. E ho paura di vendette o ritorsioni. Io, mia moglie, le mie figlie siamo rintanati in casa. Rendere pubblico quel video è stata una follia. Perché scegliere di non oscurare solo il mio viso, quello della vittima e di chi spara? Ero lì per caso, posto sbagliato, momento sbagliato: questa città ti divora anche se stai soltanto prendendo una boccata d’aria. E pensare che la mia vita poteva essere diversa, potevo fare il calciatore professionista. Mi scelse la Roma ma il richiamo di Napoli è stato troppo forte». Agli inquirenti bastano pochi giorni per capire che quel netturbino è estraneo ai fatti. Gennaro Aiello esce dall’indagine, e dal relativo incubo, con tante scuse e tanta paura. Non aveva mai pensato che la fama lo avrebbe fatto tremare e che rientrare nell’anonimato gli avrebbe fatto tirare un sospiro di sollievo così enorme.