TORRE ANNUNZIATA – A Torre Annunziata, in quei vicoli di cemento dove non batte mai il sole, il mondo gira al contrario. Le ragazzine nascondo la loro innocenza sotto due dita di trucco e venti centimetri di tacchi a spillo, mentre i bambini giocano a fare i camorristi. Il fascino del male, da queste parti, è un’arma potentissima per le menti fragili. Specie per chi è nato e cresciuto in quelle stradine diroccate dove si respira malavita e polvere da sparo. Le paranze dei bambini e i racconti romanzati della gioventù napoletana bruciata, qui sono realtà. Una drammatica verità che, troppo spesso, sfugge agli occhi di chi dovrebbe provare a cambiare le cose. Mario (nome di fantasia) è un bambino di appena quattordici anni. E’ il nipote di un boss del clan Gionta. Un pezzo da novanta della camorra che sta scontando una condanna all’ergastolo per omicidio. Ha solo quattordici anni quel ragazzino con gli occhi vispi. Ma non è come gli altri bambini della sua età. Non parla di pallone e non gioca ai videogame. La sua grande passione è un’altra: le armi. Non le armi giocattolo. Quelle vere. Quelle che sparano e ammazzano. Quelle che usano i boss di Fortapàsc e di Gomorra per “proteggere” i propri affari e regolare i conti in sospeso. Una passione talmente forte da spingere il nome di quel ragazzino al centro di un’inchiesta messa in piedi dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Un’indagine che qualche giorno fa ha portato all’arresto di sedici persone accusate di aver trafficato armi dall’Austria per poi rivenderle ai clan della provincia di Napoli. Come il “Terzo Sistema”, la cosca emergente guidata dal boss Ciro Domenico Perna, l’organizzazione criminale nata dalle ceneri dei vecchi clan di Torre Annunziata. E Mario, in quell’inchiesta, è protagonista di un’intercettazione – datata aprile 2016 – proprio assieme a Perna. Un’intercettazione dai contorni inquietanti nella quale quel ragazzino, che all’epoca aveva appena quattordici anni, parla di pistole, fucili e mitra con la disinvoltura di un killer professionista. I due discutono dell’arsenale a disposizione di Domenico Scaramella, il presunto armiere che avrebbe rifornito il “Terzo Sistema”. «Tiene una trentotto e una trecentocinquantasette a otto botte», afferma Mario mentre gli brillano gli occhi come succede solo ai bambini. «Era nero con il manico di legno… un mostro», le parole entusiaste di quel ragazzino che si eccita davanti a uno strumento di morte. «Prendiamocela Domenico, a otto botte e il manico di legno», il suggerimento rivolto al boss per convincerlo a inserire un’altra bocca di fuoco nel suo arsenale. Mario parla con una drammatica dimestichezza di calibri, prezzi, canne e proiettili. Lo fa mentre si emoziona nel ricordare di aver stretto tra le mani quel “cannone” micidiale: «Domenico ma però come è pesante», afferma ancora in quel dialogo surreale. Una conversazione che nemmeno il più fantasioso sceneggiatore sarebbe mai arrivato a immaginare. Ma Mario non è solo un bambino appassionato di pistole. E’ un intermediario che il clan avrebbe usato – così teorizza l’Antimafia – per concludere la compravendita di armi. «Gli ho detto ti porto seicento euro di anticipo, me la vuoi dare a poco per volta?». Ma Mario è soprattutto un bambino che nel cassetto dei “giochi” nasconde la sua pistola personale. «Quella che tengo io e mi servono le botte dieci e mezzo», la richiesta rivolta a Perna. «Domenico me lo fai sapere se trovi a qualcuno che mi fa le botte della dieci e mezzo?» chiede ancora quel bambino che parla di proiettili come se fossero caramelle. Per i pm della Dda in quell’intercettazione c’è la prova dei rapporti d’affari tra Perna, il suo clan e il presunto fornitore di armi. Ma in quella parole, forse, c’è molto di più. C’è la follia della mafia che arruola i bambini. C’è il fascino del male che avvolge nel suo inferno i ragazzini dei vicoli. C’è il dramma di una città, di una terra, dove la camorra è ovunque. Anche negli occhi chiari di quel ragazzo di appena quattordici anni che felice stringe tra le mani una pistola micidiale. «Otto botte Domè, ce la dobbiamo prendere», ripete sorridendo quel giovanissimo armiere della camorra
Ciro Formisano