Il primo anello della catena ideata dalle organizzazioni criminali che operano nel settore dei beni culturali restano i tombaroli. Gli scavi clandestini sono l’altra faccia del contrabbando delle opere sottratte illecitamente allo Stato e finite sul mercato nero, talvolta svendute persino su piattaforme online. Una piaga che ha messo in ginocchio soprattutto la Campania, tra l’area vesuviana e casertana, così come la Puglia. Si tratta di intere fette di territorio saccheggiate da specialisti che agiscono quasi sempre su commissione. Ad analizzare il fenomeno, che resta di fatto allarmante per la sua attualità, è l’architetto Antonio Irlando, presidente dell’Osservatorio Archeologico Vesuviano.
Nelle ultime ore la retata contro l’organizzazione criminale che operava tra Napoli e Brescia, ma resta irrisolto il dramma dei tombaroli.
«Il patrimonio culturale fa gola alle organizzazioni criminali, ormai è inutile girare intorno al problema. Le mafie provano a ripulire denaro sporco attraverso le opere trafugate. Servono più controlli, lo Stato può fermarli con telecamere a tutela dell’arte».
Di fatto, tuttora ci sono reperti a rischio?
«Ma certo, lo sono eccome. E l’area più appetibile resta quella vesuviana, soprattutto quella poco fuori le mura di Pompei. Lo Stato è perfettamente a conoscenza del patrimonio nascosto in quelle zone di confine, che nascondono intere ville, ma ne sono a conoscenza anche i tombaroli».
Non sono degli sprovveduti, dunque.
«Tutt’altro. Agiscono quasi sempre a colpo sicuro, studiano le aree già documentate, le stesse potrebbero finire nelle mani di criminali già nelle prossime ore. Ahimè, ripeto, sono note allo Stato ma anche ai tombaroli ».
Come è possibile?
«C’è un’attività di monitoraggio da parte della Soprintendenza nell’area al di là della cinta muraria di Pompei. Mi riferisco, ad esempio, alla zona di Civita Giuliana. Già tra il 1906 e il 1907, da parte dei proprietari, fu avviata un’attività di scavo e ognuno all’epoca era libero di commercializzare i reperti rinvenuti nei propri fondi. Insomma, è noto a tutti che quell’area era stata scavata in parte. Fu illustrato in una pubblicazione di circa vent’anni fa, per mano della Soprintendenza, che spiegava alcuni risultati dell’attività. Parliamo di un’area documentata, di cui si conosceva la planimetria e la sua consistenza. Bene, lo Stato cosa ha fatto per proteggere la zona dai tombaroli?».
In pratica si agisce a colpo sicuro?
«Esatto, costruiscono delle baracche dove vi ripongono gli attrezzi agricoli e scavano dei pozzi. Sanno perfettamente che i reperti sono al di sotto dello stato di lapillo bianco, distintivo dell’eruzione del 79. Evitano anche i sopralluoghi nei giardini. Chiaramente vanno a caccia di oggetti piuttosto che di affreschi, preferiscono soprattutto reperti d’oro. Negli ambienti cercano anfore, coppe, come il tesoro di Boscoreale conservato al Museo di Louvre, a Parigi, che vanta coppe con bassorilievi con tecnica a sbalzo».
Come si può combattere questo fenomeno?
«Ci sono intere aree già saccheggiate, patrimoni sottratti allo Stato. Servono telecamere, sistemi sofisticati a tutela dei reperti. A Napoli c’è il comando dei carabinieri tutela del patrimonio, andrebbe assicurato anche a Pompei. D’altronde, soltanto 1939 è iniziato a cambiare qualcosa nel principio della conservazione dei beni di interesse culturale. Prima di quella data, addirittura la vendita dei reperti non comportava un reato. Anzi, intere ville di Boscoreale sono finite sul mercato. Gli scavi dei privati, proprietari di pezzi di terreno, erano autorizzati facilmente. Tant’è che affreschi di ville romane di Boscoreale sono al Metropolitan di New York».