I nomi più celebri cui si lega l’immagine dell’ergastolo ostativo sono quelli dei capimafia che non ci sono più, Totò Riina e Giuseppe Provenzano. Ma la condanna al “fine pena mai” è stata inflitta a tutti i boss mafiosi condannati per le stragi e che non hanno mai voluto collaborare con la giustizia. Così come ai terroristi di ultima generazione, che con lo Stato non sono mai voluti scendere a patti. Gli ergastolani ostativi sono un esercito di oltre mille persone. Sono 1.250, secondo i dati di Nessuno Tocchi Caino, cioè i due terzi dei 1.790 condannati a vita. Ma dagli altri ergastolani li separa una barriera invalicabile: non possono sperare e nemmeno richiedere la liberazione condizionale e tutte le misure alternative alla detenzione. A meno che non scelgano di collaborare. E la legge fu fatta proprio per mettere i mafiosi di fronte a un bivio, come ha ricordato l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: essere fedeli a Cosa Nostra e pagarne le conseguenze, oppure collaborare con lo Stato e cominciare così il processo di ravvedimento previsto dalla Costituzione.
L’immagine che i difensori degli ergastolani ostativi usano per spiegare in pratica la vita dei loro assistiti è quella dei “sepolti vivi”. Nemmeno un giorno di permesso per incontrare una tantum i familiari fuori dal carcere; e a maggior ragione nessuna possibilità di lavorare all’esterno del penitenziario. Ma, soprattutto, nessuna prospettiva di fine pena fuori dalle quattro mura di una cella: si traducono così in concreto le restrizioni cui sono sottoposti questo tipo di detenuti. E se sono mafiosi, in genere l’ergastolo ostativo si accompagna al regime carcerario del 41 bis. Cioè a limitazioni per i colloqui con i familiari, per l’ora d’aria e per la socialità. Non solo: sono previsti anche controlli più stringenti sulla corrispondenza e in alcuni casi anche l’impossibilità di avere un contatto fisico con gli affetti più cari con i quali si può parlare e vedersi solo attraverso un vetro.