di Marco Russo
Esiste da sempre un’anima notturna della Grecia, una «Grecia dell’ombra» (J. Lacarrière). È una vena oscura e portante, una base di viscere che corre sottopelle: è quel misto di musica, canto e danza a cui Nietzsche attribuiva la genesi della tragedia antica, la forza dell’arte come suprema accettazione della vita. Il suo luogo d’origine è l’Asia Minore, le sue radici affondano in terre dai nomi suggestivi: Tracia, Frigia, Anatolia. Quest’anima si è ridestata, all’inizio del XX secolo, con nuova capacità creativa. Ha seguito gli eventi dolorosi e le migrazioni forzate successive alla Prima guerra mondiale. Si è insediata nei porti e nelle taverne di Atene e Salonicco. Si è data un nome, uno stile di vita. Ha creato un codice linguistico e un genere musicale unico: il rebetiko. Il poeta e antropologo culturale Elias Petropulos ne ha descritto gli innumerevoli risvolti artistici, sociali, politici e storici. Da qualche anno in traduzione italiana (Rebetiko. Vita, musica, danza tra carcere e fumi dell’hashish, Nautilus 2013, euro 11,00), i suoi scritti ricostruiscono con precisione filologica e senso di condivisione un mondo – quello dei bassifondi e degli emarginati nella Grecia urbana della prima metà del Novecento (rebetis risalirebbe al turco rempet, «indisciplinato», per estensione «reietto», «escluso») – dove il suono del buzouki, la musica e il canto si fanno voce delle «amarezze e dei tormenti che opprimono» l’esistenza e la fanno «vorticare», come dice in O Isovitis (L’ergastolano) Markos Vamvakaris (1905-1972), il più influente e il più famoso tra i rebetes.
I luoghi, i temi, lo stile musicale
Il carcere (filakí) e la bettola (tekè) sono tra i temi più presenti in queste composizioni dalla struttura metrica lineare e dalla rima ossessiva, in prevalenza baciata. Si tratta – sottolinea Petropulos – di luoghi di elezione per uomini afflitti dalla miseria e respinti dalla società che, in caffè malfamati o dietro le sbarre delle prigioni, fanno cricca (maga) e diventano “fratelli” (vlamides), imparando spesso a suonare da autodidatti il bouzuki o il più piccolo baglamàs e solidarizzando in nome della comune appartenenza all’ipokosmos (sottomondo). Molti, almeno agli inizi, sono profughi in fuga dalla pulizia etnica attuata dai Turchi contro le comunità greche dell’Asia Minore: arrivano perlopiù dalla regione di Smirne, la città della Catastrofe (Katastrofì) del 1922, occupata e data alle fiamme dalle armate di Ataturk. Li accoglie una patria che li rinnega, che li costringe a delinquere e li convince di essere «nati per soffrire», come canta Vassilis Tsitsanis (1915-1984) in Ghennithika gha na pono. Persi nel vino, nello sballo (mastùra) da hashish e non di rado nell’eroina, cantano (proseguendo la tradizione dei murmùrika, i “bisbigliati”) la pena (ponos) a bassa voce e la ritmano con lo zeibekiko, una danza di origine anatolica che si balla anche da soli, a braccia aperte e a passi irregolari. In Italia si deve a Vinicio Capossela il primo disco dedicato da un artista nostrano (Rebetiko Gymnastas, 2012) a questo genere inimitabile, accostato spesso al blues e al fado. Ma è forse nella nostra canzone popolare che vanno cercate affinità tematiche e compositive: si pensi al recupero dei canti della vecchia mala milanese, la Ligèra, realizzato da Nanni Svampa e dai suoi Gufi; alla voce rugginosa di Gabriella Ferri, interprete esemplare delle storie d’amore e de’ cortello del sottomondo romano; o, scendendo a Sud e in ambiente rurale siculo-calabrese, alla figura di Otello Profazio, cantore di un Meridione in bilico tra violenza e riscatto. Il suo sodalizio con il poeta Ignazio Buttitta segnala il legame da sempre esistente tra bassifondi e letteratura “colta”. Un aspetto decisivo per comprendere il valore senza tempo del rebetiko. Quello che la grande Anna Achmatova ha detto una volta per tutte: «Se sapeste da quali immondizie nascono i versi…»
Vamvakaris e il quartetto del Pireo
Petropulos divide l’epoca d’oro del rebetiko (1922-1952) in tre periodi: quello dello Stile smirneiko (1922-1932), di cui resta pochissimo, non essendoci pervenuta alcuna registrazione risalente a quell’epoca; quello Classico (1932-1940), dove a dominare è Markos Vamvakaris con il suo “Quartetto del Pireo”: Giorgios Batis (1890-1967), baglamàs; Anestis Deliàs, nativo di Smirne (1912-1944), morto di eroina, autore dei rebetika fra i più struggenti e più belli di sempre, bouzuki; Stratos Pagioumtis (1904-1971), canto; Markos Vamvakaris, canto e bouzuki; quello Popolare (1940-1952), in cui la figura di spicco è quella di Tsitsanis, profondo innovatore dal punto di vista musicale e poetico. Al primo periodo appartiene il disco di Marika Papagika, Greek popular and rebetic music in New York (1918-1929), Alma Criolla Records, 1994. Papagika è tra le prime cantanti di rebetiko e le sue sono in assoluto le prime registrazioni di rebetika. Era fuggita dalla Turchia nel 1916, rifugiandosi a New York: appartiene alla cosiddetta “diaspora ottomano-americana”. La sua Smyrneiko Minore (1919), registrata nel 1925, è un canto nostalgico che racconta l’inizio della guerra greco-turca (1919-1922). È il rebetiko con cui si apre il film di Costas Ferris, Rembetiko (1983).Al secondo periodo appartiene il disco di Vamvakaris, Master of Rembetika (Complete Recordings 1932-1937), JSP Records, 4 Cd, 2010.Appartiene invece all’epoca contemporanea la raccolta To Rembetiko stou Thomà, Atene 2000, 6 Cd, disco nato sull’onda del successo del film di Ferris, ambientato appunto nella locanda di Thomas al Pireo, raccolta di vecchi rebetika riarrangiati e di nuove composizioni, alcuni dei quali presenti nel film.