di Marco Russo.
La morte violenta di Luigi Tenco, quel colpo di pistola esploso nel silenzio di una camera d’albergo di Sanremo nel gennaio del 1967, ha unanimemente scavato un abisso nella storia della canzone d’autore italiana, risuonando come uno spartiacque, rimbombando come una linea di demarcazione profondissima tra un “prima” e un “dopo”. Tra gli artisti su cui quel gesto tanto drammatico eserciterà – per ragioni anagrafiche e di amicizia personale, nonché di più generale impostazione poetica – un’influenza decisiva e duratura un nome spicca su tutti gli altri: Piero Ciampi (Livorno, 28 settembre 1934 – Roma, 19 gennaio 1980). Ci aveva già provato nel 1963, Piero, a ritagliarsi un posto d’onore tra i nuovi autori di canzoni: grazie all’aiuto di Gianfranco Reverberi, aveva pubblicato in quell’anno, per le edizioni della CGD, l’album PIERO LITALIANO (da pronunciarsi con l’accento sull’ultima sillaba, alla francese, essendo questo il nomignolo che il cantautore livornese si era guadagnato in terra d’Oltralpe, al tempo di un suo leggendario “viaggio di formazione” a Parigi). L’opera, pur contenendo brani di assoluto valore come Qualcuno tornerà, Fino all’ultimo minuto o Lungo treno del sud, già intrisi di una scrittura originale e aliena dagli stereotipi e dalle rime facili delle canzonette in stile “sanremese” dell’epoca, si rivelò un insuccesso e relegò l’autore in quel sottobosco di anonimi e di spiantati che sbarcavano il lunario scrivendo testi per interpreti più o meno in voga. Ma ecco il 1967. Pochi mesi dopo il suicidio dell’amico Tenco, Piero riesce ad ottenere – grazie all’intercessione di Gino Paoli – un contratto con la RCA, a condizione che entro un anno appronti un disco di 8-10 canzoni. Invece sparirà. Intascata la cospicua somma d’anticipo, riprenderà la sua vita disordinata e randagia in compagnia dell’unica compagna fedele, la bottiglia. Starà via tre anni senza dare notizie, trascorrendo la maggior parte del tempo – pare – in Irlanda, dove la moglie era fuggita portando con sé il figlio Stefano. Alle richieste di chiarimento di Ennio Melis, capo della RCA, risponderà di non aver potuto rispettare i termini del contratto perché «troppo occupato a vivere», ma di avere perciò «accumulato» materiale a sufficienza (poesie, soprattutto) da trasferire in musica. Così, salvo saltuari ritorni nell’amata Livorno, Roma diventerà la città della sua maturità artistica per tutto il decennio degli anni Settanta. Qui, con il sostegno costante di Melis e la collaborazione determinante di Gianni Marchetti – raffinato musicista che saprà valorizzare al meglio i suoi versi senza ingabbiarli – Piero inciderà i suoi capolavori distribuendoli in quattro album (da PIERO CIAMPI del 1971 a DENTRO E FUORI del 1976). Nemmeno allora gli arriderà il successo. Ma l’autenticità abrasiva, spesso dolorosa e spiazzante, propria delle parole scritte col sangue del suo intensissimo vissuto, ne farà probabilmente il massimo esempio di poesia in musica nella storia della nostra canzone d’autore. Baudelaire raccomandava, a chi volesse essere poeta, di mettere il proprio «cuore a nudo»; Ciampi ci richiama, in una delle sue ballate più famose, alla necessità di essere credibili, di avere «tutte le carte in regola/ per essere un artista.» Una tale compenetrazione tra arte e vita risulta ancora oggi – a quarant’anni esatti dalla sua scomparsa – una eccezionale testimonianza di verità e di libertà creativa. Sfrontato e istrionico (si pensi a straordinari “pezzi di teatro” come Il giocatore o Te lo faccio vedere chi sono io), delicato e fiabesco (Quaranta soldati quaranta sorelle, Io e te Maria), anarchico e picaresco (Il Natale è il 24, L’amore è tutto qui), struggente come pochi altri (Tu no, Cosa resta, Sporca estate, In un palazzo di giustizia, L’incontro), lirico e introspettivo (Cristo tra i chitarristi, Ha tutte le carte in regola, Tra lupi), liberatorio (Il vino, Adius), il poeta livornese non ha mai goduto di un largo consenso di pubblico. Ben altra l’importanza e la rilevanza che nel tempo gli hanno riconosciuto i suoi illustri colleghi cantautori. Ci piace ricordare in particolare il giudizio del grande Claudio Lolli, secondo il quale Ciampi, con la sua capacità unica di tradurre in «versi palpitanti ogni contingenza, ha insegnato a tutti come si scrive una canzone.»Ps. È discutibile, certo. Ma pare che «la tua assenza è un assedio» sia il verso più bello della canzone italiana.