L’altra faccia dell’emergenza legata al Coronavirus è un’istantanea che arriva da uno dei più grandi centri di produzione e stoccaggio di abbigliamento della provincia di Napoli. Capannoni vuoti, macchine per cucire che non fanno più rumore. Abiti imballati che restano appesi sui manichini. E poi gli scatoloni. Milioni. Contengono gli abiti che non saranno consegnati, perché i negozi al dettaglio – come previsto dal decreto della presidenza del consiglio dei ministri – resteranno chiusi fino al tre aprile. Se tutto va bene. Una filiera che s’è fermata. Arrestata bruscamente dall’allarme Covid e che rischia di avere effetti devastanti su tutta l’economia. Tra le più famose case di produzione e distribuzione d’abbigliamento nate all’ombra del Vesuvio c’è quella fondata da Michele Carillo, imprenditore di San Giuseppe Vesuviano e self made man del tessile che negli anni ha costruito un impero grazie a marchi – come Lizalù e Akè – diventati ormai famosissimi. Cento punti vendita aperti in tutta Italia, duecento persone alle dirette dipendenze e un indotto che parte da San Giuseppe Vesuviano e arriva in tutto il mondo che coinvolge ventimila famiglie. Oggi tutte in apprensione per gli sviluppi di un’emergenza che potrebbe danneggiare un ingranaggio che fattura decine di milioni di euro ogni anno. «Ma ora è tutto fermo. Venti giorni fa ci hanno chiuso i negozi per motivi di sicurezza. Ora anche la produzione s’è arrestata. Un danno enorme, senza alcun paracadute. Perché il Governo di non sembra essersi dimenticato. Ci hanno chiuso e basta». Dalle spedizioni alla vendita al dettaglio dei capi d’abbigliamento la psicosi del contagio sta trasformando l’economia. «Soltanto al Cis di Nola ho 17 capannoni che da giorni sono chiusi. Ma non sono l’unico imprenditore che ha fermato tutto. Qui tutti hanno bloccato ogni cosa. E i ritardi nei pagamenti da parte dei negozi che solitamente riforniamo s’abbatte su di noi. Intorno soltanto alla mia azienda c’è un mondo che tiene in piedi ventimila famiglie. Non so come faremo quando potremo finalmente riprendere le attività. Per noi è un disastro, un terremoto. Soltanto dopo che sarà finita riuscirò a fare la conta dei danni», spiega Michele Carillo. Un universo fondato sul “taglia e cuci” che ha come capitale San Giuseppe Vesuviano ma che s’allargato negli anni prima tra Terzigno e Palma e poi fino al nord Italia e all’estero con Pakistan e altri paesi asiatici diventati partner aziendali. Eppure per il polo tessile – che nell’hinterland vesuviano negli anni ha trovato terreno fertile con la nascita di migliaia di aziende, tra cui quella di Michele Carillo – non ci sono paracaduti. «Non c’è nulla per la tutela del Made in Italy, eppure dopo il food siamo noi il motore economico del paese che su abbigliamento e moda s’è retto per anni», dice l’imprenditore di San Giuseppe Vesuviano.Molte aziende si sono “riciclate”, preferendo produrre mascherine per i centri sanitari del territorio. «Non potrei mai farlo, se dovessi produrre mascherine o altro materiale, li regalerei». Le ombre sul futuro sono tante. Dalla ripresa delle attività a rischi, non soltanto economici, che saranno inevitabilmente legati alla riapertura dei locali. «Spero che passi al più presto questa bufera che s’è abbattuta sul mercato. Ma non so cosa farò in futuro. Ma devo rialzarmi. Lo devo ai dipendenti che lavorano con me da trent’anni. Alle famiglie che ho visto crescere. Ragazzi che sono diventati amici e uomini che si sono sposati e che non possono finire in mezzo alla strada».
CRONACA
27 marzo 2020
Le griffe all’ombra del Vesuvio: «Tutto fermo, qui siamo morti»