«Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». La famosa citazione – dai più attribuita a Massimo D’Azeglio – a quasi 160 anni dall’Unità resta quanto mai attuale. Mondiali ed Europei di calcio a parte, infatti, il Paese dei mille campanili proprio non riesce a sentirsi uno. O, quanto meno, a rispettare, apprezzare e valorizzare in quanto possibili ricchezze le proprie differenze territoriali.
E nemmeno la pandemia (che si spera sia in fase conclusiva) sembra aver cambiato molto le cose. Anzi. Anche con milioni di vite in gioco, tutto sembra essersi ridotto al tifo da stadio. E nel “derby d’Italia” scendono in campo «la sanità lombarda» contro quella del sud; l’ideatore della cura efficace bistrattato dai colleghi del nord perché napoletano; il governatore “sceriffo” della Campania che contro ogni pronostico da’ lezioni ai colleghi settentrionali. Sullo sfondo, il più becero repertorio di luoghi comuni: il contagio che «purtroppo» ha colpito di più al Nord perché «lì vanno tutti a lavoro, sono più ligi»; e per fortuna, «visto il disastro della sanità meridionale» in cui però «stranamente ci sono anche delle eccellenze, come il Cotugno a Napoli».
Idiozie amplificate – in maniera virale, è proprio il caso di dirlo – dagli amplificatori di idiozie per eccellenze, vale a dire i canali social. Eppure, verrebbe da dire, nulla di nuovo. Questa fantomatica Italia, tanto unita in realtà non lo è mai stata, a ben vedere. Senza voler tornare alle origini, alla “invasione piemontese” del regno borbonico duosiciliano, basta rammentare come e quando e sulla pelle di chi il “ricco Nord” ha fondato le sue fortune. Vale a dire quella di milioni di “terroni” costretti a lasciare le proprie miserie per sperare in un futuro migliore. Salvo poi, esaurito o comunque diminuito il proprio compito, essere additati come i responsabili di tutti i mali settentrionali. Alla pari, del resto, di quelli che al sud, invece, ci sono rimasti.
E anche se negli ultimi tempi hanno cambiato pelle – o hanno tentato di farlo – gli egoismi territoriali già trent’anni fa hanno trovato rappresentanza politica, attraverso le Leghe lombarde e venete, dichiaratamente razziste, xenofobe e antimeridionali che al grido di “Secessione!” hanno messo piede stabilmente in quella “Roma ladrona”, dove evidentemente non si sono trovate male, anzi. Partiti incendiari e fieri, si sono riscoperti tutti pompieri, per dirla con Rino Gaetano. Sdoganati dalla lunga stagione berlusconiana, trascorsa quasi sempre al governo, insieme ai neo-post-nostalgi-fascisti, i leghisti “duri e puri” hanno gettato solide radici mettendo le mani su quel pezzo di Italia che tanto stava loro a cuore. Per poi scoprire che non era (ancora) abbastanza.
E così oggi, accantonate le velleità del Bossi prima maniera (che però tornano sempre utili per tenere insieme la “base” più intransigente), con Salvini, Meloni e altri sovranisti all’amatriciana sono passati al “prima gli italiani” che puzza di Ventennio lontano un miglio.
Toccato il fondo dei consensi e con il rischio scomparsa incombente, il leader dei lùmbard, folgorato sulla via di Pontida, ha scoperto che anche i terroni votano. E sono anche tanti. Così in men che non si dica ha sciacquato nel Lambro il repertorio dei luoghi comuni su cui la Lega ha fondato le sue fortune e ha spostato il tiro – manco a dirlo – più a Sud: il nemico non è più il terrone – napoletano o siciliano che sia, resta pur sempre italiano, nel chiuso del seggio elettorale – ma l’immigrato. Un colpo di genio. Perché i “terroni del mondo” non piacciano tanto nemmeno ai terroni italiani, almeno a quelli disposti a dimenticare decenni di insulti e pregiudizi. Anzi, pronti, quasi grati, a farli propri pur di riversarli su altri.
E pazienza se, in realtà, siamo sempre meridionali di qualcuno, come diceva il professor Bellavista creato da Eduardo De Crescenzo. I sovranisti, quelli “veri”, sono stati pronti, proprio in questa emergenza, a mostrare il proprio vero volto quando è apparso evidente che l’Italia aveva (ed ha) bisogno di aiuto: «Prima gli olandesi». E’ il sovranismo, baby. Davanti alla pandemia, insomma, riemerge la vera natura di ciascuno.
E così, anche in piena emergenza, quando sarebbe stata necessaria quella cosa sconosciuta chiamata unità, appunto, si è riusciti a discutere e a litigare su tutto: rischio di contagio, chiusura del Paese, efficacia delle cure, misure da adottare, ruolo dell’Europa, tempi e modi di riapertura. E adesso i politici italiani sono alle prese con un problema ancora più spinoso della pandemia: come rimettere in piedi il Paese. Possibilmente, tutto il Paese, non solo una parte.
Sì, perché una cosa è certa, anche ai più ingenui: da sempre, sull’altare dell’efficienza e delle maggiori capacità imprenditoriali del nord, sono state sacrificate le risorse destinate al sud che avrebbero dovuto colmare proprio quel gap. Figuriamoci cosa potrà succedere adesso, che quelli ricchi, bravi e intelligenti si sono riscoperti anche fragili: il pericolo – alla faccia dell’unità… – è che stavolta per il meridione non restino nemmeno le briciole. Le premesse non sembrano delle migliori, già ci si prepara alla riapertura “all’italiana”, vale a dire, ciascuno come gli pare. Servirebbero ben altre intelligenze e capacità, ma questo passa il convento. Del resto si dice che i governanti siano lo specchio dell’elettorato, e forse è sin troppo vero.
Ma consoliamoci: pensiamo se quest’epidemia ci fosse stata un anno fa, con un certo ministro agli Interni e vicepremier a dettare la linea del governo. Già, quello che invocava «pieni poteri» da una spiaggia, avrebbe avuto (forse) la strada spianata, come accaduto all’amico e modello Orban in Ungheria. Roba che al confronto, i danni causati dal virus quasi impallidiscono.