Per entrare nell’inferno del carcere duro basta schiacciare un bottone sulla tastiera di un telefono. In un attimo quella voce lontana centinaia di chilometri rimbalza tra le pareti del braccio di massima sicurezza. Da un lato della cornetta c’è il padrino di turno isolato dal mondo e sepolto vivo in una cella da 10 metri quadrati. Dall’altra parte mogli e sorelle, figli e fratelli. Mamme e papà. Tutti sorvegliati e divisi da un vetro invisibile fatto di circuiti e reti cablate. A vigilare c’è un agente della polizia penitenziaria. Ascolta e osserva. Prova a cogliere ogni sospiro che riecheggia da una parte all’altra del cellulare nel silenzio di quella piccola stanza di una caserma dei carabinieri. Ha il compito di evitare che quella chiamata si trasformi in uno scambio di informazioni proibite. Magari con messaggi cifrati da recapitare a chi ha raccolto, fuori, lo scettro del padrino finito dietro le sbarre. Eccoli gli effetti del Coronavirus sulla vita dei super detenuti, quelli ritenuti socialmente più pericolosi. Gente che si è macchiata di delitti orribili. Assassini, padrini, affiliati di rango. Quindici minuti ogni due settimane: tanto dura il colloquio telefonico con l’inferno del carcere duro. Una “licenza” inserita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – in via eccezionale e «solo fino al termine dell’emergenza sanitaria» – con una circolare diffusa qualche giorno fa. Il Dap ha deciso di aprire alle chiamate con il carcere duro. Un filo diretto con il 41-bis nato «al fine di garantire un minimo di contatto con la propria famiglia», come si legge in una delle autorizzazioni concesse ad un boss difeso dall’avvocato Dario Vannitiello. La decisione del DapIn pratica la chiusura totale e le stringenti norme anti-contagio hanno di fatto bloccato i colloqui con i detenuti al carcere duro, quasi tutti confinati nel Centro e nel Nord Italia. Una decisione che sostituisce la circolare precedente con la quale proprio il Dap, il 21 marzo scorso, aveva ribadito che i colloqui con i detenuti al carcere duro sarebbero avvenuti soltanto nei parlatori videosorvegliati dei penitenziari di massima sicurezza, con mascherine, guanti e ambienti sanificati. Poi, però, il blocco totale e il boom di contagi hanno mischiato le carte in tavola. Rendendo inevitabile la necessità di creare un percorso alternativo per garantire ai detenuti al carcere duro il diritto a comunicare con i propri cari. E così, per consentire anche ai boss di parlare con i propri familiari è stato deciso di organizzare i colloqui telefonici presso la più vicina caserma dei carabinieri. In una stanzetta vengono fatti entrare massimo due parenti del detenuto autorizzati. Parlano al telefono con il boss e sono monitorati, finché non lasciano l’edificio, sia dai militari dell’Arma che da un agente della polizia penitenziaria che è l’unico che può assistere alla conversazione. Con questo provvedimento vengono concesse «due chiamate al mese» con «cadenza quindicinale», come ribadito nel provvedimento firmato dal direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Ai detenuti al regime del carcere duro, a differenza di chi si trova recluso in regime ordinario, non sono però concesse le videochiamate via Skype, uno strumento diventato sempre più diffuso nei penitenziari in queste settimane. Una concessione che ha suscitato però la rabbia di alcuni magistrati Antimafia. Come Catello Maresca, il pm che ha messo in ginocchio il clan dei Casalesi e che ha parlato proprio dei rischi legati al fatto di aver concesso ai detenuti di utilizzare dispositivi di questo genere. Permessi “speciali” arrivati, come denunciato sempre da Maresca in queste settimane, all’indomani delle terribili rivolte che tra l’8 e il 9 marzo scorso hanno devastato 26 penitenziari, portando alla morte di 14 detenuti. I 40 boss vesuviani Il filo diretto con il 41-bis è stato già aperto, in questi giorni, nelle caserme della zona vesuviana. Tra Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Torre del Greco ed Ercolano sono decine, infatti, gli esponenti di spicco della camorra locale che si ritrovano reclusi al 41-bis per effetto dei provvedimenti firmati, negli anni, dal Ministro della Giustizia. Dai boss del clan Gionta ai D’Alessandro, dai temuti padrini dei Cesarano fino ai Gallo-Cavalieri per finire con gli esponenti di spicco dei Birra-Iacomino e degli Ascione-Papale. In tutto sono una quarantina i capoclan che potranno beneficiare del filo diretto dal carcere duro. Tra loro, giusto per fare qualche nome, c’è gente del calibro di Valentino Gionta, il padrino fondatore della cosca che un tempo “abitava” a Palazzo Fienga, Raffaele Cutolo, il capo indiscusso della Nco nonché l’artefice della sanguinaria guerra tra cosche combattuta tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80. E ancora Ferdinando Cesarano, padrino di Ponte Persica che ha creato dal nulla uno dei sodalizi criminali più ricchi e potenti della camorra campana. Per finire con killer, padrini e generali dello spietato clan D’Alessandro.
CRONACA
24 aprile 2020
Al telefono le voci dal 41-bis, i 15 minuti di libertà dei 40 padrini vesuviani ai tempi del coronavirus