“Non ho moglie, né figli. Ma non sono solo. Io ho sposato il mare”. A Torre Annunziata, lungo il molo di Ponente al porto, ogni giorno un “vecchio” scruta l’orizzonte. Annusa odori e profumi, controlla se “c’è tramontana o vento di terra. Questo è buono per andare a largo”. Infine accarezza il “suo” mare. E’ un gesto di ossequiosa referenza, una gentile gratitudine costante.
Quel gesto si ripete puntuale – “al massimo entro mezzogiorno, quando è l’ora di rientrare a casa per il pranzo” – da ottantacinque anni. Sembra una leggenda. Quasi la nitida trasposizione del romanzo che nel 1954 valse ad Hemingway il Nobel per la letteratura. Al posto di una povera capanna, immaginata dallo scrittore americano nel suo capolavoro, c’è però un moderno circolo nautico. Il “vecchio” che ogni giorno scruta l’orizzonte, lungo il molo di Ponente in zona porto, invece non ha un nome esotico. Non è Santiago. Ma proprio come lui, che vive solo nelle pagine immortali di un capolavoro, porterà per sempre “rispetto al mare. E’ la mia vita”. Arso Aurelio Pantaleone è il più antico pescatore di Torre Annunziata. Oggi ha 95 anni. Più che un umile “operaio del mare” è un modello da seguire. Una specie di incrollabile mito. In città o al porto lo conoscono tutti. Basta chiedere di “Zì Peppe”. E da subito, quasi per incanto, si apre un fantastico e ideale scrigno dei ricordi. Racconti di vita semplici e schietti. Pure crudi. Tutti hanno ancora il profumo di mare. “Aspetta un attimo, Zì Peppe sta arrivando. Doveva andare dal dottore. Stai sicuro che entro mezzogiorno arriva” ci dicono i suoi nipoti pescatori, Giuseppe e Felice Farfalla, mentre cerchiamo di scrutare la snella sagoma di Zì Peppe lungo il molo. E lui, poco prima che le campane di un’antica chiesa, quella del Carmine, riflettendosi al solito nell’acqua segnalino l’ora del saluto al mare, arriva come sempre al porto. “Sedetevi Zì Peppe. Ci sono un caffè e un giornalista che vi stanno aspettando” lo avverte suo nipote Giuseppe. Il vecchio pescatore di Torre Annunziata non si scompone. Prende una sedia, beve il caffè. Poi inizia a raccontare. “Il mare è la mia vita. Da ottantacinque anni. Ne avevo dieci quando mio padre, si chiamava Felice, mi portò per la prima volta qui al porto. Dovevo imparare bene a cucire le reti per farlo pescare”.
E’ a questo punto che Zì Peppe, per un attimo, distoglie lo sguardo. Prima era fisso su di noi. Adesso, invece, è rivolto verso il mare. il “vecchio” respira, dopo riprende: “Ho cucito reti per anni. Ogni errore era uno schiaffo. Io stavo sempre zitto, mai una protesta. Alla fine ho imparato. E’ stato papà a in- segnarmi tutto”. Dopo il necessario apprendistato, Zì Peppe, ancora giovanissimo, ha iniziato a uscire in mare con i suoi tre fratelli. “Uscivamo sempre in quattro. Io, Pietro, Raffaele e Vincenzo. Purtroppo, tutti gli altri sono morti. Io sono l’ultimo della dinastia. Ma ricordo che eravamo forti. Uscivamo alle 4 di notte, solo con le reti e le lampare. Pescavamo tonni enormi”. Per quasi 70 anni Zì Peppe, al suo fianco, ha avuto un’alleata forte e affidabile. “Era la mia barca. Era bellissima, azzurra come il mare, lunga 29 metri. L’ideale per pescare tonni, merluzzi e ricciole. Prima, qui a Torre, si pescava bene”.
Dopo è arrivato invece il Sarno. Col suo portato di veleni e di liquami direttamente sversati a mare. “E’ colpa delle industrie, delle persone che non rispettano il mare. Prima erano altri tempi, era un’altra vita. Il mondo era diverso, il mondo era migliore. La gente amava il mare”. Zì Peppe si ferma un attimo. Sente dodici rintocchi. Sono le campane della Chiesa. E’ l’ora del suo saluto al mare. Così il vecchio pescatore si alza dalla sedia, fa due passi. Si sporge dalla banchina, togliendosi per un attimo il cappello. E’ mezzogiorno. E’ l’ora del saluto. E’ l’ora di tornare a casa per il pranzo. “Felice” conclude il “vecchio” prima di andare “l’aria è buona. C’è vento di terra, il mare è una tavola. Appena possibile voglio tornare a uscire. Portami con te, in barca e a largo. E’ questa la mia vita”.