Alessandra Staiano*
Confinati a casa, ci chiediamo tutti come sarà dopo. La risposta su un tempo passerà molto attraverso un concetto che ha più a che fare con lo spazio: il confine. Tra me e l’altro. Tra noi e gli altri. Come sarà dopo dipenderà parecchio da come e quanto saremo capaci, individualmente e collettivamente, di interpretare e vivere in modo nuovo i nostri “confini” recuperando quanto su di essi abbiamo, giocoforza, imparato in questo tempo sospeso e rallentato chiamato lockdown. Sappiamo tutti che lo spazio in cui viviamo non è semplicemente quello fisico delle strade, piazze e città in cui abitiamo, ma è soprattutto lo spazio delle relazioni sociali, indagato da una materia solitamente bistrattata come la sociologia. Mai come in questo periodo abbiamo tutti sperimentato che lo spazio delle relazioni sociali non passa solo attraverso i canali fisici, ma tanto attraverso quelli digitali. Se con la famiglia, gli amici e i colleghi abbiamo fatto videochiamate, call su svariate piattaforme (personalmente ne avrò sperimentate almeno una mezza dozzina) per scambiarci un saluto, fare un aperitivo a distanza o continuare a lavorare, la comunità più ampia delle città ha trovato nei social network lo strumento dove continuare a nutrire le relazioni interne. A mantenere e curare, cioè, il senso di comunità attraverso le community possibili con i social.
Mi sembra che lo abbia fatto in un modo più ampio e sfaccettato di come lo abbia mai fatto prima del Covid-19 anche perché lo spazio digitale è stato scoperto e frequentato da chi finora – per età o attitudine- se ne era tenuto lontano o, comunque, lo aveva guardato con diffidenza. Allargata la base degli utenti, diversificatane la tipologia, data la stura alla creatività per sfruttarne le diverse opportunità, sui social dove già non c’erano solo gli haters di professione, si è fatto avanti chi cura e mantiene in piedi una comunità. Sulle piattaforme ora ci sono i parroci che trasmettono le messe in diretta su Fb o YouTube; artisti, cuochi e professori che mettono a disposizione il loro sapere recitando, suggerendo ricette e tenendo lezioni e molto interessante in questo senso l’esperienza di “Castellammare digitale” avviata dall’amministrazione comunale; i negozi di vicinato che con la piattaforma di shopping online declinata in chiave locale “localshopping.store” continuano a mantenere i rapporti con i clienti tentando contemporaneamente di resistere allo tsunami che la pandemia rappresenta per l’economia. L’allargamento e diversificazione di utenti e tipologie di utilizzo sembra aver portato anche a una maggiore consapevolezza collettiva intorno alle “fake-news” che in fondo sono sempre esistite, ma prima si chiamavano “bufale” e oggi hanno un effetto devastante proprio perché possono dilagare sui social, colpendo in modo molto veloce un numero di soggetti poco (quando non per nulla) avvezzi alla verifica delle fonti.
Che si tratti di un tema serio, che molto ha a che fare con la qualità della democrazia, lo dimostra il fatto che da un paio di anni la Commissione Europea abbia adottato un piano di azione per contrastare la disinformazione online. Sarà perché si è avuto più tempo per andare oltre il semplice clic per condividere un post di cui si è letto soltanto il titolo, o per l’impatto che le informazioni hanno avuto sulla vita di ognuno, o perché quando si trattava di ‘news’ locali ognuno ha avuto la possibilità di verificarne l’attendibilità, in questi due mesi mi è capitato sempre più spesso di leggere commenti di persone comuni che sbugiardavano questa o quella “fake” o quantomeno la mettevano in discussione invitando gli altri a controllare la fonte e a leggere quanto riportavano i siti o le pagine fb istituzionali oppure le testate giornalistiche più famose, che mai come in questo periodo hanno avuto l’occasione di riaffermare il proprio ruolo. Rapporti e relazioni sociali delle “comunità-città” si sono trasferite in un ambiente raggiungibile anche per chi in questo momento non è nella sua città d’origine, come me e come tanti che, per ragioni di lavoro, si trovano altrove ma che possono viverlo allo stesso modo di chi è, fino in fondo, a casa. E’ la dimostrazione che lo spazio che viviamo è multiplo, frammentato e sovrapposto: un prisma. La distinzione tra analogico e digitale non ha senso, i due piani convergono e si mischiano creando una realtà sociale di cui dobbiamo imparare a conoscere le regole di funzionamento nella consapevolezza che come sarà “dopo” dipenderà anche da quanto ognuno avrà imparato e messo in pratica adesso intorno allo “spazio-prisma”.
(*Giornalista)