Mariella Parmendola*
Una donna con l’Alzheimer ha perso il marito con il virus, costretta in casa con la badante senza aiuti come tutti i familiari dei contagiati. Soli con il dolore e la paura del virus. Il suo appartamento si è riempito di rifiuti, che le due donne in isolamento non potevano buttare e nessuno andava a prendere. Una quarantena che diventa prigione senza aiuti esterni. Una delle storie di vittime circondate non solo dal vuoto della perdita, ma anche da quello materiale di chi avrebbe dovuto prendersene cura. Nessuno è arrivato a portare la spesa o a prendere l’immondizia per giorni. Solo la famiglia, nel caos di regole e divieti, è restata accanto alla vedova, che in questa epidemia ha perso il compagno di una vita. Sole come un’altra anziana di Castellammare che, in pochi giorni, ha visto prima andare in ospedale il genero e poi la figlia.
In una notte si è ritrovata senza nessuno. Lei che non vede e non riesce a mangiare o andare in bagno senza aiuto. Nel vuoto di un sistema portarla in ospedale è stata una scelta obbligata. Positiva al coronavirus, come la coppia con cui viveva, solo in un reparto del San Leonardo ha trovato chi poteva assisterla. Eppure l’ottantenne stabiese avrebbe dovuto restare lontana da quell’ospedale dove il contagio correva da una corsia all’altra. “Non andate in pronto soccorso” è stato tra i primi diktat introdotti all’inizio dell’ingresso dell’Italia nel tunnel dell’epidemia. Per poi non aiutare chi doveva combattere il virus nelle mura di casa ne’ dal punto di vista sanitario ne’ assistenziale. Impossibile trovare anche un infermiere per mettere una flebo con il 118, come ancora di soccorso per i casi più gravi e per chi ha sintomi lievi. Mentre l’unità con il medico per i pazienti di Covid a casa è arrivata quando la Campania era sulla via di uscita dallo stesso tunnel.
La solitudine e’ entrata nella vita di tutti con il virus ad inizio marzo. Non solo quella che abbiamo visto, nelle immagini dei tg, dei pazienti in terapia intensiva. E quella delle loro famiglie costrette a restare giorni e settimane accanto al telefono in attesa di notizie. La solitudine ha creato anche altre vittime per un sistema che non era pronto ad un’emergenza come il coronavirus, perché in realtà non funzionava neppure prima. L’epidemia ha fatto emergere sul versante socio-sanitario le lacune di una politica che non ha investito sulla rete di protezione per chi è in difficoltà. Agli isolati in quarantena sono stati chiesti sacrifici enormi senza che le istituzioni arrivassero a rispondere alle esigenze minime di assistenza.
A funzionare solo gli ospedali e i reparti di terapia intensiva dove troppo spesso si è arrivati quando era tardi. Quanto la solitudine in cui sono state lasciate le vittime abbia aumentato il numero di contagi è difficile dirlo. Eppure è un conto che bisogna fare. Se in Veneto è andata meglio è perché il modello socio-sanitario è differente. E in questo caso non serve tirare in causa la geografia. Le differenze Nord-Sud sono uno stereotipo non applicabile come la Lombardia dimostra. Si può solo distinguere tra un modello che ha funzionato come in Germania, uno che ha dato risultati migliori se guardiamo al Veneto e un terzo da riorganizzare. Un bilancio più semplice, tanto quanto terribile è quello che racconta di un altro risvolto di questa solitudine imposta dal virus. Donne e bambini chiusi i casa con uomini violenti. Vittime a cui l’epidemia ha aggravato la condizione, rendendo il loro inferno più nero perché circondato da un silenzio maggiore. In questo caso basta leggere i dati delle forze dell’ordine. Il picco visibile di un mondo violento quanto sommerso.
Anche qui in Italia la rete di protezione è fragile e scatta solo quando sono le vittime a trovare il coraggio di prendere la parola. Chiedeva il direttore di Metropolis, Raffaele Schettino, se questa epidemia ci renderà migliori. Sul piano individuale ognuno troverà la sua risposta, anche se il peggioramento delle condizioni socio-economiche potrebbe rendere più conflittuali le relazioni di ogni tipo. Il punto essenziale è, però, uscirne diversi. Diversi nella capacità di tornare in strada senza inquinare e distruggere. Diversi nella consapevolezza collettiva di dovere creare modelli che funzionino nella normalità, come nell’emergenza, cancellando la solitudine. Essere comunità significa non essere mai soli.
(*Giornalista)