Otto secoli fa l’Anticristo che oggi scruta immobile piazza Plebiscito da un’arcata di Palazzo Reale scelse Napoli per piantare il seme della cultura. Era il 1224, e la prima università statale della storia iniziò a forgiare i futuri uomini di governo. Federico II considerava la cultura un pilastro fondante del suo grandioso progetto socio-politico che puntava a costituire un impero universale capace di riunire tutti i domini dell’Europa occidentale, ma soprattutto considerava la cultura il sale della vita. Egli stesso parlava sei lingue, era un cultore delle arti e della poesia, promuoveva ideali di pace e tolleranza, tanto da passare alla storia, almeno per quelli che non l’hanno detestato al punto da contrapporlo a Cristo, con l’appellativo di “Stupor Mundi”. La scelta di costruire una fabbrica del sapere a due passi dal magico isolotto di Megaride non fu un caso: le tradizioni culturali e la posizione geografica fecero della città di Partenope il luogo perfetto nel quale realizzare quel procedimento alchemico di emancipazione. Del resto, chi ha la fortuna di vivere affacciato sul mare ha anche il privilegio di guardare l’orizzonte senza ostacoli, dunque ha la fortuna di poter correre più veloce sul sentiero dell’evoluzione culturale. Eppure, 796 anni dopo la grandiosa intuizione di Federico II qualcosa s’è inceppato.
Otto secoli dopo, nel giorno in cui si celebra il compleanno dell’università statale più antica della storia, si avverte quella sensazione amara di impotenza che si prova nel contrapporre un passato illustre a un futuro fosco. La cultura quasi non è più un valore, non è centrale nella nostra vita, per molti non serve a generare economia e progresso, molto spesso non è più nemmeno una condizione propedeutica all’accesso alle professioni, sicuramente non è più un pilastro negli apparati politico-amministrativi e non è più la spina dorsale di tanti uomini di governo. Anzi, chi ce l’ha la usa prevalentemente per aguzzare l’ingegno e costruire consenso, sacrificando il coraggio di portare avanti visioni lungimiranti che hanno il difetto di dare risultati soltanto in prospettiva. Su questo fronte, forse, viviamo l’involuzione più preoccupante in nome del populismo che incessantemente pialla le competenze e riduce la nobile arte della politica (ammesso che esista ancora) a slogan di grande impatto ma di scarso contenuto.
Una triste realtà che si esaspera ad ogni tornata elettorale. Vincenzo De Luca, così come Luigi de Magistris e tantissimi sindaci della città Metropolitana venuti su a loro immagine e somiglianza, sono il perfetto prototipo del governatore trendy. Sanno prima di tutto colpire allo stomaco, sanno cavalcare le tendenze e le paure. De Luca, per esempio, è riuscito a riabilitarsi durante l’emergenza Covid, passando in tre mesi da spina del “suo” Pd a leader indiscusso, e a meno di clamorosi colpi di scena vincerà le Regionali di settembre. La sua cultura, lo sceriffo l’ha messa al servizio dell’apparenza più che della sostanza, della provocazione più che della rivoluzione. Pur di ribaltare le percentuali elettorali pre-lockdown, oltre alla storia delle ordinanze più o meno precoci, più o meno restrittive, ha persino scelto di combattere tra tanti crociati che agitano la clava dell’ignoranza, una stupida e kafkiana battaglia Sud-contro-Nord per decidere chi è superiore a chi.
Ovviamente se questi otto secoli non fossero passati invano, e se l’uomo avesse percorso nel giusto verso l’evoluzione del pensiero, qualsiasi frase fondata sul concetto di superiorità, o inferiorità, legata all’uomo evaporerebbe sulle labbra stesse di chi la pronuncia e non ci sarebbe bisogno di combattere guerre miopi e medioevali. Invece, siccome qualcosa s’è inceppato, siccome l’uomo è andato dalla parte sbagliata, il terreno sul quale fare consenso è diventato un’arena più che un’agorà. E la cultura non c’entra più nulla. Una sconfitta atroce per chi ha il privilegio di vivere affacciato sul mare. Per chi guarda l’orizzonte. Per chi vive nella terra che otto secoli fa forgiava illuminati uomini di governo.