La mattina dell’11 maggio 1981 al Cedar of Lebanon Hospital di Miami, un cancro beffardo, dalla metastasi micidiale, lo aveva ucciso senza nemmeno dargli la possibilità di rivedere per l’ultima volta la sua terra, l’amata Giamaica. Bob Marley aveva solo 36 anni. A 40 di distanza, il re del reggae continua a irradiare la sua luce taumaturgica, per molti seguaci una luce quasi medianica. “Tuff Gong”, il soprannome che si era guadagnato nelle strade di Trenchtown, il ghetto di Kingston dove era cresciuto, unisce una comunità di milioni di persone, tra le quali artisti, musicisti, scrittori, fan e semplici ammiratori di ieri e di oggi. Una figura unica nella storia musicale (e non solo) della seconda metà del ‘900: figlio di un padre bianco e di una ragazza nera, incarnava la disperazione del popolo giamaicano, negli anni in cui il conflitto sociale mondiale infliggeva alle masse la purga della repressione. Al di là delle sue intramontabili hit, Marley è stato innanzitutto un leader politico e spirituale, la prima vera popstar del terzo mondo: è difficile trovare nelle cronache del tempo un personaggio che sia riuscito a trasmettere un messaggio di fratellanza e di pace così potente, a rendere così chiara la capacità trascendente di un live concert. Gli esegeti ritengono – a ragione – che Marley abbia compiuto con il reggae un’operazione paragonabile all’opera di evoluzione e popolarizzazione svolta dai Beatles sul rock: per essere brevi il mondo ha scoperto e ha imparato ad amare il reggae grazie alla sua opera discografica, che copre un arco temporale che va dal 1965, esordio con i Wailers, al 1980 e che ancora oggi vende vagonate di dischi ad ogni ristampa. “In quella musica apparentemente semplice c’è un altrove che l’ha resa un linguaggio universale, che quasi per osmosi ha stabilito un contatto tra i suoni del Sud del Mondo ma al tempo stesso ha messo radici profonde nella musica degli anni a venire, dalle operazioni più sofisticate ai prodotti commerciali” (fonte ansa, ndr). La malattia fu “autodiagnosticata” dallo stesso cantante in un episodio apparentemente senza conseguenze. Dopo una partita di calcio, Marley notò una ferita sull’alluce destro. Sarebbe stato l’inizio di una lenta degradazione a cui si decise di non porre rimedio. Fu così che si arrivò alla diagnosi, si trattava di un melanoma maligno sviluppato sull’alluce del piede destro. Al cantante fu proposta una cura oppure l’amputazione del dito del piede, che gli avrebbe causato certo dei fastidi ma non sarebbe stata ovviamente letale. Secondo la religione Rastafariana, così chiamata in onore di Hailé Selassié (Ras Tafari), ultimo imperatore d’Etiopia e unico sovrano indipendente d’Africa, il corpo era un dono divino e non poteva essere corrotto da cure artificiali. Bob Marley, fedele indefesso del credo, decise di non accettare cure per il male che aveva scoperto.
M|CULT, M|MHZ
13 maggio 2021
40 anni fa moriva Bob Marley: il mondo del reggae (e non solo) celebra il suo Ras Tafari