Pioveva con insistenza e faceva freddo. L’umidità entrava nelle ossa, mentre la nebbia si stava impossessando della città. Nulla di insolito per un popolo abituato ai temporali anche in pieno luglio. Era una tipica serata d’autunno, quel 14 novembre 1973, a Londra. I massicci, ma ordinati, spostamenti del rientro a casa erano animati dalla varia e chiassosa umanità che aveva preso d’assalto gli autobus rossi bipiano per raggiungere Wembley, tempio del calcio, per assistere a Inghilterra-Italia, amichevole di lusso. Tra i tifosi, anche moltissimi italiani che anni prima si erano trasferiti nella capitale in cerca di fortuna. Un giornale popolare l’aveva buttata sull’ironia, scontata e irritante: «E’ prevista un’invasione di camerieri italiani». Il classico boccone amaro che ci tocca ingoiare ogni volta che si gioca contro le nazionali dei Paesi d’emigrazione. Giorgio Chinaglia, figlio di emigrati in Galles che da ragazzino aveva fatto proprio il cameriere, se la legò al dito. In effetti gli italiani che facevano i camerieri erano numerosi, ma si mescolavano in armonia in quel melting pot di culture di una metropoli cosmopolita già allora. Tuttavia, i nostri “paisà” erano stufi di sentire i soliti stereotipi sugli italiani sole, pizza, mandolino e mafia. La speranza era veder vincere gli azzurri e ricambiare qualche sfottò.
C’era uno storico tabù da sfatare. La Nazionale non aveva mai battuto i maestri a casa loro. Esattamente trentanove anni prima, il 14 novembre 1934, c’era stata la famosa sfida di Highbury. Una sconfitta che fu celebrata come un trionfo per il coraggio leonino con il quale si erano battuti gli azzurri Campioni del Mondo, ma era stata pur sempre una sconfitta peraltro edulcorata dalla retorica di regime. Prova ne sia che gli inglesi infilarono tre volte la difesa azzurra nei primi 12 minuti. Si evitò una disfatta solo perché Ceresoli parò un calcio di rigore e perché nella ripresa i Leoni d’Inghilterra decisero di non umiliare i campioni del Mondo scatenando le critiche della stampa locale. Sicché Meazza segnò due reti sfruttando altrettante occasioni, mentre Guaita e Ferrari sbagliarono gol già fatti.
«Poiché il conto in cui viene tenuta l’Italia – scrive Gianni Brera – non è molto, i maestri si degnano di collaudarci ma non ritengono di aprire Wembley per dei “povericristi” come noi. L’incontro avverrà dunque ad Highbury, sul campo dell’Arsenal». Le cose andranno come sappiamo dando ragione agli inglesi, ma a Roma racconteranno altro.Così in un successo, in quella uggiosa serata di novembre del ’73, ci speravano in pochi. Dal punto di tattico era l’epoca del catenaccio all’italiana, esaltato anche da celebri commentatori, al quale non si sottraeva alcun commissario tecnico: difesa asfissiante e centrocampo di rottura. L’Italia non si smentì nemmeno in quella occasione anche perché fu presa subito d’assalto dai padroni di casa.
L’andamento della gara fu a tratti imbarazzante. Non si contavano i palloni spediti dagli azzurri in calcio d’angolo o in tribuna. Dietro agivano i mastini Burgnich, Facchetti, Spinosi e Bellugi, mentre a centrocampo Capello e Benetti cercavano di spezzare gli attacchi tambureggianti degli inglesi. Persino Riva e Chinaglia rientravano per dare una mano ai compagni, di tanto in tanto Rivera teneva palla per far rifiatare la squadra. Di più non si poteva. L’unico che davvero si trovava a suo agio era Romeo Benetti, un guerriero dalla faccia feroce amante dei canarini, abituato al clima di battaglia. Dopo 45 minuti di passione l’Italia rientrò negli spogliatori, non si sa come, con la porta inviolata.
Nella ripresa gli inglesi, complice un campo pesantissimo, allentarono un po’ la presa pur mantenendo il controllo delle operazioni. In un rabbioso contropiede, Giorgione Chinaglia, scagliò un tiraccio violento verso la porta che Shilton parò con una certa difficoltà. Quando mancavano pochi minuti alla fine e sembrava che le squadre avessero accettato l’idea di un pareggio a reti bianche, ecco l’episodio spartiacque che riscrisse la storia di questa sfida.Inzuppato d’acqua e tutto scoordinato, Chinaglia s’involò sulla fascia sinistra, mise al centro una palla velenosa, né un tiro né un cross, che Shilton non riuscì a bloccare. La palla danzò in mezzo all’area piccola dove Capello con un tocco lieve, quasi delicato, la depositò in rete. Wembley ammutolì, mentre in sottofondo esplose la gioia degli italiani che finalmente poterono festeggiare tutta la notte e sfottere i londinesi. Intanto il boato dei milioni di italiani attaccati alla tv in bianco e nero scosse idealmente la capitale britannica.
Negli anni, i tifosi si sono sempre di più incollati alla tv per seguire, con ansia e trepidazione, le partite della Nazionale. Il 24 giugno del 2012 il fascino colore è subentrato da un pezzo al poetico bianco e nero. Quando Italia e Inghilterra arrivano ai calci di rigore per decidere chi andrà in finale agli Europei di Polonia e Ucraina, c’è un momento in cui l’antico ruggito di Wembley è sostituito da un interminabile “oooooh” di incredulità e ammirazione. L’Italia onora la semifinale giocando una partita meravigliosa, dominando per due ore l’Inghilterra e non riuscendo a sbloccare il risultato solo per sfortuna. Sembra la serata di Wembley a ruoli invertiti. Così è costretta a giocarsi il passaggio del turno attraverso i rigori. Balotelli segna, Montolivo manda a lato evocando già un’eliminazione beffarda e piena di rimpianti. Gli inglesi paiono ringalluzziti fino a quando non si avvia al dischetto Andrea Pirlo, calciatore di talento sopraffino. Procede con passo lento, ma deciso. E’ una sfinge, impossibile decifrare le sue emozioni. In pochi istanti cambia il corso della partita con la freddezza propria dei fuoriclasse. Il numero 21 è indifferente alle linguacce di Hart, anzi, decide di superarlo con un cucchiaio, beffardo e irriverente. Lo realizza in scioltezza infondendo nuova fiducia nei compagni e sgretolando le certezze degli inglesi. Poi gira le spalle e rientra in gruppo come se nulla fosse successo. Ciò che accade nei minuti successivi è la naturale conseguenza dell’imprevedibile tocco di classe dell’azzurro. “Zio” Antonin Panenka, inventore del cucchiaio con il quale giustiziò la Germania agli europei del ’76, avrà osservato compiaciuto il gesto del fuoriclasse italiano. Il resto è storia di oggi. Anzi, di stasera.