Claudio Gavillucci ha arbitrato per venticinque anni in Italia, è stato protagonista della battaglia con l’Aia per rendere trasparenti ai direttori di gara le valutazioni degli osservatori e le graduatorie e ha raccontato insieme a Manuela d’Alessandro ed Antonietta Ferrante tutto nel libro “L’uomo nero le verità di Arbitro scomodo” edito da Chiarelettere. Da due anni Gavillucci è in Inghilterra, dove sta continuando anche la professione di arbitro. Con Claudio siamo andati a fondo nelle novità all’orizzonte per gli arbitri e soprattutto su quanto ancora ci sarebbe da fare per migliorare questo mondo.
Antonio Danilo Giannoccaro nel ruolo d’intermediario tra arbitri e club di A e B. È un passo in avanti verso la trasparenza?
“Quella di una figura intermediaria tra club ed Aia, è un’idea che avevo proposto io da un po’ di tempo, ed anche il punto on-line a fini didattici su certi episodi-chiave è un’innovazione di cui si discute da qualche anno, quindi le ritengo idee valide. Però come dissi a Rocchi, che ha preceduto Giannoccaro, questa figura non deve avere la funzione di un ufficio reclami a cui i club si rivolgono perché pensano di aver subito un presunto torto. L’intenzione dev’essere di creare un valore aggiunto, una crescita culturale accrescendo la conoscenza del regolamento da parte di tutte le componenti del calcio, anche gli stessi media. Soltanto così questa novità potrà essere all’altezza dell’esigenza di trasparenza e comunicazione che si denuncia da anni”.
Un altro progetto all’orizzonte porta alla pubblicazione dei dialoghi tra arbitro e Var. Cosa ne pensi?
“Sono stato sia arbitro di campo che “varista”, per me non abbiamo nulla da nascondere, metto la mano sul fuoco riguardo alla professionalità di tutti i miei colleghi. È un’innovazione attuabile facilmente, che andrebbe configurata solo sotto il profilo tecnico, ascoltare i dialoghi tra gli arbitri favorirebbe anche la comprensione dell’episodio da parte di tutti. Bisognerebbe però fare un percorso per arrivare a questa svolta, sulla comunicazione e sul “public speaking” degli arbitri perché parlare, sapendo che possano sentire milioni di persone, è un’attività che va preparata”.
Dopo la tua battaglia che ha reso trasparenti agli arbitri le valutazioni e le graduatorie, pensi che il giudizio degli osservatori sugli arbitri debba essere conosciuto anche dal pubblico?
“No, per me quel giudizio deve rimanere all’Interno dello spogliatoio, ci sono delle situazioni interne, come l’analisi di una partita di un calciatore con il suo allenatore che resta riservata, e così vale per gli arbitri nello spogliatoio dell’Aia, che è la squadra dei direttori di gara. Un arbitro deve sapere se ha commesso un errore, conoscere le valutazioni che lo riguardano, il percorso che sta compiendo e finalmente, dopo la mia battaglia, tutto ciò è realtà’ ma all’esterno questo non deve trapelare”.
Spesso si sente che l’arbitro è stato “bocciato” con uno-due turni di stop. È un meccanismo che funziona a tuo avviso?
“Assolutamente no, non sono soluzioni valide che anzi rischiano di mettere in difficoltà l’arbitro sotto il profilo psicologico e della serenità di giudizio. Il direttore di gara è un atleta, sospenderlo per una-due settimane può rappresentare un danno. Per fare un esempio, è come se Spalletti, dopo i rigori sbagliati da Insigne, avesse cambiato rigorista. Lorenzo avrebbe perso fiducia e tutto ciò avrebbe influito in maniera negativa sul suo rendimento. L’arbitro, se ha commesso un errore, deve saperlo, bisogna comunicare anche pubblicamente che si è trattato di uno sbaglio, ma deve continuare a fare il suo lavoro. Un direttore di gara va fermato soltanto se è lui a chiederlo perché magari vive un momento in cui non ha la serenità giusta per scendere in campo”
Tre anni fa sei stato il primo (e unico) arbitro che ha fermato una partita per cori razzisti contro i napoletani. La riapertura degli stadi ha riproposto il tema del razzismo in Italia, cosa ne pensi?
“Il razzismo è l’esempio giusto per spiegare l’immobilismo del calcio italiano, siamo nelle stesse condizioni del 2018. Sono contento e orgoglioso d’aver acceso un faro su questo tema, mi ricordo che neanche Insigne in Sampdoria-Napoli credeva a quanto stessi facendo e mi disse: “Ma over faje?”. Mi sembra di aver letto qualche mese fa che Tavecchio ha dichiarato che nel programma elettorale che l’ha portato alla guida della Figc dovette derubricare sotto richiesta di alcuni club le sanzioni per la discriminazione territoriale dalla chiusura dei settori alla sola ammenda. In Inghilterra tutto ciò è impensabile, lo stadio non è una zona franca, anzi commettere un reato all’interno dell’impianto sportivo è un aggravante perché si tratta di un luogo pubblico in cui ci sono donne e bambini”.
Come va l’esperienza in Inghilterra? Che differenze hai riscontrato rispetto al calcio italiano?
“È un’esperienza molto positiva sia dal punto di vista personale che professionale. La differenza più netta riguarda la collaborazione tra tutte le componenti, si lavora sul dialogo tra arbitri e società sin dalle giovanili, infatti, c’è un’estrema conoscenza del regolamento a tutti i livelli, dovuta alla quotidiana informazione e formazione da parte di organi preposti. In una partita di Serie A un difensore mi chiese di ravvisare un fuorigioco sul calcio di rinvio. I club inglesi lavorano per esempio molto sulla condotta di comportamento che porta vantaggi perché ridurre i cartellini in un campionato può fare la differenza. Evitare delle squalifiche a giocatori fondamentali determina possibilità di fare punti che possono essere decisivi per raggiungere l’obiettivo stagionale. Questa svolta anche con le buone intenzioni del Presidente Trentalange però non può farla solo l’Aia ma c’è bisogno della sponda di Lega Serie A e Figc. In Italia siamo stati poco lungimiranti su tanti argomenti, il risultato è che siamo trent’anni dietro gli inglesi in termini di “prodotto calcistico“. A Liverpool arrivano gli aerei ogni weekend per vedere i Reds, in Italia pensiamo ancora ad evitare la chiusura del settore in caso d’intemperanze per favorire i pochi facinorosi che ancora frequentano la maggior parte degli stadi Italiani”.