“Una legge ingiusta non è legge”, ammoniva Agostino d’Ippona, e questa massima, che attraversa secoli di riflessione giuridica, riecheggia con inquietante attualità dinanzi al recente disegno di legge del Governo, volto a introdurre nel codice penale il reato di femminicidio. L’idea di punire con l’ergastolo chi cagiona la morte di una donna per odio di genere o per reprimere le sue libertà personali appare non solo viziata da profili di incostituzionalità, ma tradisce una visione distorta della funzione stessa del diritto penale, ridotto sempre più a strumento di comunicazione politica anziché di razionale garanzia sociale. La proposta normativa risponde a una logica puramente simbolica, dove il legislatore – dinanzi all’escalation di episodi di violenza contro le donne – ritiene che l’unica risposta possibile sia l’inasprimento delle pene e la creazione di nuove fattispecie incriminatrici. Tuttavia, la lezione della criminologia è chiara: l’aumento delle sanzioni non è un efficace deterrente se non accompagnato da una più incisiva capacità di prevenzione e repressione ex ante. La deterrenza non si misura sulla gravità della pena, ma sulla certezza della sua applicazione. Cesare Beccaria, nel celebre Dei delitti e delle pene, ci ha insegnato che “le pene sono giuste in quanto necessarie” con l’innegabile conseguenza che un castigo, per essere giusto, dev’essere soltanto quello che sia indispensabile a trattenere gli uomini dal commettere delitti. La previsione dell’ergastolo automatico per il femminicidio, indipendentemente dalle circostanze del caso concreto, si pone in contrasto con questi principi, trasformando il diritto penale in una leva politica piuttosto che in un sistema razionale di tutela dei beni giuridici. L’omicidio è già punito con l’ergastolo in diverse ipotesi aggravate (artt. 576 e 577 c.p.), e le motivazioni abiette o futili costituiscono un’aggravante generale (art. 61 c.p.). L’introduzione di una specifica fattispecie di omicidio connotata dal movente discriminatorio solleva dubbi inquietanti: cosa accadrebbe se la stessa condotta fosse commessa da una donna nei confronti di un uomo per ragioni speculari? Perché il nostro ordinamento dovrebbe riconoscere una tutela rafforzata a una vittima rispetto a un’altra? L’eguaglianza davanti alla legge è un caposaldo dello Stato di diritto e un diritto penale che distingue i reati in base alla qualità del soggetto passivo anziché sulla base della condotta rischia di sfociare in un diritto penale del nemico, per usare la celebre espressione di Günther Jakobs. L’elemento più critico della norma è l’introduzione di un dolo specifico di odio di genere, secondo il quale l’omicidio diventa femminicidio se commesso per ragioni discriminatorie o per reprimere le libertà della vittima. Ma come si dimostra il movente soggettivo dell’odio di genere? L’omicidio è, per sua natura, un atto di estrema violenza e non esiste un omicidio “benevolo”. Dunque, come si distingue l’odio in quanto donna dall’odio derivante da motivazioni personali? Se un uomo uccide la compagna per gelosia, il fatto rientra nella norma? Se la uccide perché la considera di sua proprietà, è femminicidio o è un delitto d’impeto? Il rischio è che il processo si trasformi in un’inquisizione sulle intenzioni più recondite dell’imputato, basandosi su criteri di valutazione incerti e opinabili, in contrasto con il principio di tassatività e determinatezza sancito dall’art. 25 della Costituzione. Se il vero obiettivo è il contrasto alla violenza di genere, il legislatore dovrebbe concentrarsi su strumenti più efficaci, come il rafforzamento della protezione preventiva delle vittime, con misure cautelari più tempestive e sistemi di allerta precoce per i reati spia; il miglioramento della formazione degli operatori di polizia e magistratura, per garantire interventi tempestivi e appropriati; il sostegno concreto alle donne vittime di violenza, con risorse adeguate per i centri antiviolenza e programmi di reinserimento sociale; la riabilitazione e il controllo degli aggressori, perché spesso chi uccide ha già dato segnali chiari di pericolosità; un’educazione culturale di lungo periodo, per contrastare la radice del problema: la concezione patriarcale della donna come proprietà dell’uomo. La prevenzione non si fa con il codice penale, ma con strumenti culturali, educativi e sociali. L’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuove fattispecie di reato stanno diventando la strategia predefinita di questo governo e, più in generale, di un certo modo di fare politica negli ultimi anni. Il problema è che questa bulimia panpenalistica è una spirale pericolosa. Se bastasse una nuova fattispecie di reato per risolvere un problema sociale, vivremmo in una società priva di crimini. E non si può negare che anche una parte del movimento femminista sia contaminato dal populismo penale, progressivamente abbracciando una logica giustizialista e invocando pene sempre più severe come unica risposta alla violenza. Questo approccio, però, rischia di tradire le radici stesse del pensiero femminista, che storicamente ha lottato contro le logiche repressive, per una giustizia più equa e un cambiamento sociale profondo. L’idea di combattere la violenza con la sola repressione penale è una semplificazione che non risolve il problema, anzi, lo sposta su un piano puramente simbolico, senza effetti concreti sulla vita delle donne. Questo disegno di legge, così formulato, si alimenta dell’emozione collettiva e appare profondamente viziato da profili di incostituzionalità e destinato a finire davanti al giudice delle leggi. Si tratta di una norma che non affronta il problema della violenza di genere con strumenti razionali, ma risponde a esigenze di propaganda politica, distorcendo i principi fondamentali del nostro sistema penale. Nel crepuscolo del diritto penale contemporaneo, sembra che la razionalità giuridica stia cedendo il passo a un diritto penale emotivo e simbolico. E questo, più di ogni altra cosa, dovrebbe preoccuparci.
* avvocato penalista e responsabile giustizia di Italia Viva