Castellammare. Il boss pestò a sangue due operai, scambiandoli per ladri di scooter
CRONACA
16 maggio 2025

Castellammare. Il boss pestò a sangue due operai, scambiandoli per ladri di scooter

Metropolis

«Se esco è tutto mio, mi sono stancato». Il piano di Vincenzo D’Alessandro di tornare al comando del clan di Scanzano, egemone da oltre mezzo secolo a Castellammare di Stabia, comincia il 12 settembre 2017, quando è ancora recluso in carcere. Lo anticipa alla moglie Carmela Elefante nel corso di un colloquio, intercettato dagli investigatori. Il boss, terzogenito del padrino defunto Michele, dovrà aspettare tre anni, però, prima di tornare alla guida della cosca. Prima la scarcerazione e il trasferimento in Sardegna, poi solo nel 2019 il ritorno a Castellammare. Il passaggio di consegne – secondo quanto ricostruito dalla Procura Antimafia – viene sancito nell’agosto del 2020, quando in carcere finisce Giovanni D’Alessandro, alias Giovannone, cugino di suo padre, che fino a quel momento aveva retto le sorti della cosca. Dal ritorno al comando, Vincenzo D’Alessandro, comincia a imporre la sua legge fatta di violenza, minacce, controllo asfissiante del territorio e soprusi nei confronti di qualsiasi imprenditore gli finisse a tiro. Un atteggiamento da padrone della città, pronto a tutto per raggiungere i suoi scopi chiaramente illegali. Un clima di terrore che riesce ad imporre anche e soprattutto grazie all’omertà di chi preferisce pagare il pizzo, anziché denunciare, e alla collaborazione di professionisti che si mettono al servizio dei camorristi. C’è tutto questo e anche di più nelle oltre 400 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Napoli, Fabrizio Finamore, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia (procuratore Nicola Gratteri, sostituto Sergio Ferrigno, aggiunto Giuseppe Cimmarotta), che ha coordinato le indagini condotte dal nucleo investigativo dei carabinieri di Torre Annunziata. Sedici le persone indagate nell’ambito dell’inchiesta denominata Domino 3, undici quelle finite in carcere. Le accuse, a vario titolo, sono di associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto di armi da sparo, corruzione in atti giudiziari, delitti aggravati dal metodo mafioso e dalla finalità di agevolare il clan D’Alessandro. Tutti reati commessi tra il 2020 e il 2022. Tra gli arrestati oltre al boss Vincenzo D’Alessandro (già detenuto per altra causa), c’è la moglie Carmela Elefante, che secondo l’accusa gestiva la cassa della cosca, e suo figlio Giovanni D’Alessandro, i vecchi affiliati come Michele Abbruzzese e Ugo Lucchese, e i fedelissimi del capoclan come Giuseppe Oscurato, Antonio Salvato, Vincenzo Spista e Giuseppe Donnarumma. Assieme a loro finiscono in carcere anche due professionisti: Fabrizio Jucan Sicignano, funzionario del Comune di Ercolano, e già con una lunga esperienza in molti degli enti locali del territorio, che secondo l’Antimafia avrebbe fatto da mediatore per un’estorsione; Angelo Schettino, geometra stabiese, molto addentro all’Ufficio Tecnico del Comune di Castellammare di Stabia – secondo il pentito Pasquale Rapicano -, che gestiva le pratiche edilizie degli uomini della cosca ed era anche in grado di fornire informazioni riservate sul funzionamento delle telecamere, grazie ai suoi contatti negli uffici pubblici. L’ordinanza notificata nella giornata di ieri offre, purtroppo, ancora una volta lo scenario di una camorra infiltrata in ogni settore, che punta a riciclare soldi investendo in attività commerciali intestate a prestanome e sfrutta ogni minima debolezza anche da parte di chi dovrebbe rappresentare le istituzioni per condurre in porto i propri affari. Un’ordinanza che racconta di un imprenditrice minacciata e costretta a cedere la sua tabaccheria agli uomini del clan D’Alessandro, di un altro imprenditore picchiato perché aveva osato non rifornirsi di prodotti ittici dalle ditte vicine alla cosca di Scanzano o di un altro ancora perseguitato perché nella sua attività non erano stati installati i videopoker della camorra. Di un uomo pestato perché non aveva messo a disposizione una sua abitazione per la detenzione domiciliare di Teresa Martone, madre del boss Vincenzo D’Alessandro, e di un’altra donna, Katia Scelzo, che invece si vede regalare una casa dal clan, perché in aula ha testimoniato a favore del mandante dell’omicidio di suo padre. E ancora di un agente della polizia municipale – non indagato – che interviene per evitare che a un uomo vicino ai D’Alessandro venga ritirata la patente a seguito di un controllo, in cambio di due biliardini messi a disposizione del collega durante la comunione del figlio. A tutto questo si aggiunge il controllo spasmodico del territorio da parte del clan, in particolare rispetto all’apertura dei cantieri pubblici e privati, per risalire alle ditte a cui imporre il pizzo. E finanche per evitare il furto di scooter nel rione Scanzano: due persone a bordo di un furgone furono inseguite e pestate a sangue. Non erano ladri, ma persone che stavano lavorando e furono picchiate senza motivo.