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Vincere e dire addio. Dalla letteratura allo sport, il paradosso dell’ultimo atto.
AGORÀ
26 maggio 2025
Vincere e dire addio. Dalla letteratura allo sport, il paradosso dell’ultimo atto.
Raffaele Schettino

Ci sono storie che sembrano prendere vita dalle pagine di un romanzo: una trama avvincente, un crescendo emotivo, un trionfo liberatorio. E poi, un addio che lascia l’amaro in bocca. Del resto, non c’è epilogo più potente, più drammatico. Se vogliamo, più umano.

Nel calcio, come nella vita, come nella letteratura, il momento della vittoria spesso coincide con l’istante dell’addio. È una verità che risuona come un paradosso, appunto, eppure è parte della sua essenza più profonda: ogni trionfo porta con sé il peso della fine, come se il compimento del viaggio non lasciasse spazio ad altro. Come se la vittoria svuotasse inesorabilmente l’anima.

Luciano Spalletti lasciò il popolo napoletano in festa mentre i cori ancora riempivano le strade. Dopo aver riportato il Napoli sul tetto d’Italia dopo 33 anni, scelse il silenzio dei campi di casa, tra le colline toscane. Non perché non avesse ancora da dare, ma perché sapeva di aver già detto tutto. In quel gesto c’era un’eleganza rara, quasi pascoliana: il ritorno all’essenziale dopo il fragore del successo. Antonio Conte lo ha fatto più volte, con Juventus, Chelsea, Inter e, pare, lo farà anche con il Napoli, dopo aver vinto uno scudetto durissimo all’ultimo secondo.

Lui non è Spalletti, è diverso nel temperamento, ma rischia di essere simile nel destino. Le sue squadre esplodono, rompono gli argini, dominano, vincono. Ma poi, qualcosa si spezza. Sempre. Divergenze, attriti, insofferenze. Come un cavaliere che non riesce a fermarsi, che non sa abitare la quiete dopo la tempesta. L’addio diventa parte del copione.

Vincere e dire addio. Prima di loro, lo hanno fatto tanti altri. José Mourinho resta forse il caso più eclatante: lo fece con l’Inter dopo il Triplete del 2010: il trionfo più epico e poi via, verso un’altra storia. Il portoghese ha sempre avuto un senso teatrale del tempo perfetto. Vincere e uscire di scena. Lasciare l’immagine congelata della vetta, prima che l’inevitabile discesa possa offuscarla.

Guardiamo ancora più indietro: Arrigo Sacchi lasciò il Milan dopo aver scritto una delle pagine più gloriose del calcio europeo. Marcello Lippi abbandonò l’Italia dopo Berlino 2006, come se non potesse esistere un seguito alla notte di gloria. Pep Guardiola lasciò il Barcellona al culmine, Zidane il Real Madrid dopo tre Champions consecutive. È come se certi traguardi esigessero una fine, per restare intatti.

Insomma, l’addio da vincenti è una costante nella storia, vincere può diventare il punto più alto e, al tempo stesso, il punto di rottura. È come nella letteratura, dove l’eroe, giunto al termine dell’impresa, non può più restare. Va via, o esce di scena.

Ulisse giunge a Itaca dopo un viaggio eroico e interminabile, ma non può restare: l’eroe omerico è per natura inquieto e anche Dante lo reinterpreta come simbolo dell’uomo che non può smettere di cercare, e per questo si spinge oltre le colonne d’Ercole, fino alla morte.

Edmond Dantès, il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, dopo aver ottenuto la sua vendetta si allontana dalla scena dopo un trionfo personale e silenzioso. E quella di Prospero, ne “La Tempesta” di Shakespeare, è forse una delle uscite di scena più consapevoli e solenni della letteratura. Riconquista il suo potere, ristabilisce l’ordine, perdona i nemici e poi abbandona il palcoscenico, consapevole che il suo tempo è finito.

Ma la storia e i libri sono pieni di addii clamorosi. Cincinnato, mito romano raccontato da Livio, è l’archetipo dell’eroe che vince e si ritira. Il suo gesto ha attraversato i secoli come simbolo di virtù civica. Viene chiamato come dittatore per salvare Roma. Dopo aver vinto, rinuncia al potere e torna a coltivare i campi. Re Artù, dopo le imprese, le vittorie, la gloria di Camelot, si ritira ad Avalon. Non muore in battaglia, ma si allontana, lasciando dietro di sé una leggenda. Il suo addio è mitico, profetico. E poi Roland, cavaliere simbolo della cavalleria medievale, che combatte fino all’estremo sacrificio. La sua vittoria è tragica: muore solo, dopo aver compiuto fino in fondo il proprio dovere. Anche qui, il trionfo coincide con l’uscita di scena.

È un po’ il destino degli eroi. Loro non appartengono al tempo della pace. Il loro spazio è la lotta, la conquista, il rischio. E una volta raggiunto l’obiettivo, spesso scelgono l’esilio, il silenzio, il distacco. Forse è una forma di rispetto per l’opera compiuta. Forse è la consapevolezza che replicare l’inarrivabile porterebbe solo all’erosione del mito. Forse, più semplicemente, è una forma di stanchezza profonda: mentale, emotiva, umana.

È innegabile, che affascina chi sa rinunciare quando ha ancora tutto. È un gesto che rimanda alla dignità di non vuole assistere al proprio declino. Un epilogo amaro e inevitabile che suona come le ultime righe di un romanzo che non si vuole finire, ma che non può continuare. L’abbandono del campo dopo il trionfo, va dunque interpretato come uno sguardo lucido e pragmatico sulla fugacità della gloria. Forse è per questo che Spalletti ha lasciato Napoli nel momento più alto, ed è per questo che Conte, forse, farà altrettanto. Nessuno potrà accusarli di tradimento, però. Piuttosto, di coerenza. Di una forma rara di consapevolezza: che esiste un momento per costruire e un momento per sparire. E in fondo forse è giusto così: l’eroe che se ne va per restare mito, perché il calcio moderno consuma tutto in fretta e la riconoscenza non è di questo mondo.

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