C’è un punto in cui le parole diventano direzione, e la direzione, se condivisa, può diventare visione. È quello che si è avvertito con chiarezza nella relazione del presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, in occasione dell’ultima Assemblea nazionale di Bologna. Un discorso che non si è limitato ad analizzare la congiuntura, ma che ha avuto il coraggio di interrogarsi sul destino industriale del Paese e dell’Europa, tracciando la necessità urgente di un Piano Industriale Straordinario, per scongiurare un rischio ormai concreto della deindustrializzazione.
Un rischio non teorico che già si consumato in molte aree del nostro Paese con conseguenze drammatiche per l’economia ma anche per lo sviluppo sociale. Nella fascia di costa vesuviana, ad esempio, la desertificazione industriale, e la parziale, oltre ché lentissima, riconversione, è un dato di fatto che mostra ancora i segni e le ferite in uno scenario di archeologia industriale.
Gli opifici chiusi, le aree dismesse, passate di mano in mano e spesso abbandonate, la disoccupazione cronica che cresce e l’illusione, rimasta tale, di una transizione rapida da economia manifatturiera a turismo diffuso hanno generato un vuoto economico, sociale, perfino culturale. Si è sperperato un patrimonio di competenze, strutture, risorse pubbliche che avrebbero dovuto guidare un vero processo di riconversione. Ma senza visione, senza guida, senza un’idea di sviluppo, la riconversione si è fermata alla parola. Sul mancato rilancio delle nostre aree ha pesato spesso l’incapacità politica, l’approssimazione imprenditoriale ma soprattutto la convinzione sbagliata che industria e sostenibilità non potessero coesistere.
E proprio su quest’ultimo concetto si è soffermato Orsini, che accusa quella filosofia anti-industriale, figlia di visioni miopi e pregiudizi ideologici spesso travestiti da ambientalismo di facciata, per esempio. Orsini afferma con forza una verità spesso scomoda: industria e sostenibilità non solo possono, ma devono coesistere. Non c’è futuro ecologico che non abbia solide basi economiche, e non c’è economia che possa dirsi moderna se rinuncia a produrre, innovare, competere. La sua denuncia, però, non si ferma alla critica. È anche proposta. Indica le direttrici di un possibile riscatto: abbattimento degli oneri burocratici, riforma della politica energetica, con costi oggi insostenibili per le imprese italiane, investimenti in innovazione e tecnologie, ma soprattutto un patto rinnovato tra imprese, politica e forze sociali.
Su questa linea si inserisce con chiarezza il commento del presidente dell’Unione Industriali Napoli, Costanzo Jannotti Pecci, che definisce la relazione di Orsini come un atto di grande visione e responsabilità. In particolare, ne sottolinea l’elemento forse più potente: la centralità dell’impresa come leva strategica per la coesione sociale, la crescita e la competitività del Paese. Non un messaggio per soli imprenditori, ma un appello a una responsabilità condivisa. Il superamento di ogni logica corporativa è infatti l’unico orizzonte possibile per un’Italia che voglia essere protagonista in Europa, non spettatrice. Ecco allora l’urgenza di rivedere radicalmente anche alcuni strumenti europei come il Green Deal, affinché non diventino zavorra, ma stimolo alla competitività e all’innovazione. Una politica industriale europea, sostiene giustamente Jannotti Pecci, non può più essere solo regolamentazione e vincoli: deve diventare spinta, visione, infrastruttura per lo sviluppo.
Il discorso di Orsini, così come la riflessioni che ne scaturisce, è chiaro: senza industria, non c’è lavoro. Senza lavoro, non c’è dignità. Senza dignità, non c’è futuro. L’impresa non è una questione “di categoria”: è la condizione materiale perché una società possa progettare il domani. Per questo oggi il Paese è chiamato a scegliere. Non tra passato e futuro, ma tra declino e rinascita. La deindustrializzazione non è destino: è una conseguenza. Così come la rinascita non sarà automatica: va voluta, sostenuta, guidata.