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Martina, l’età dei sogni bruciata nella società dell’ipocrisia
AGORÀ
29 maggio 2025
Martina, l’età dei sogni bruciata nella società dell’ipocrisia
Raffaele Schettino

Martina Carbonaro aveva 14 anni. Un’età in cui si dovrebbe avere il diritto di essere bambine, non l’obbligo di essere adulte. Un’età fragile e bellissima, fatta per sognare con fiducia e non per morire di violenza. A quell’età, si dovrebbe essere protette da tutto e da tutti. E invece stiamo qui a scrivere che Martina è l’ennesima vittima di femminicidio. Una frase, ormai, vuota. Ripetitiva. Inefficace.

Forse la sua morte cancella anche l’ultima illusione: che le cose possano cambiare. Le parole non bastano più. Le marce non bastano più. Non bastano più fiaccolate, scarpette rosse, convegni, giornate contro la violenza, dichiarazioni indignate. Troppo spesso tutto questo resta solo apparenza, un post social, un atto dovuto. Ma non risolve nulla. Le donne continuano a morire. I ragazzi continuano a crescere e diventare uomini senza anticorpi morali.

Il problema è profondo: è culturale, strutturale, generazionale. E ogni nuova tragedia dimostra che ciò che stiamo facendo, non funziona. Si marcia per Martina, Giulia, Chiara. Poi ci si convince che «il ragazzo era depresso», «attraversava un momento difficile», «aveva bisogno di aiuto, non di punizione». Così la vittima viene pianta, ma non difesa. E il carnefice viene capito, ma mai davvero corretto. Fino a che punto possiamo reggere questo equilibrio malato? Fino a che punto possiamo tollerare una narrazione “politicamente corretta” che tutela tutti, ma non protegge nessuno?

Il garantismo è un valore, certo. Ma non può diventare un alibi pericoloso, quando mette sullo stesso piano il diritto alla vita e quello alla riabilitazione di chi ha scelto consapevolmente di annientarla. Soprattutto quando la “riabilitazione” è solo una parola: senza percorsi, senza controllo, senza efficacia. Chi uccide una ragazza di 14 anni non può essere solo “recuperato”. Va fermato. Va punito. Perché la prevenzione non è solo educazione: è anche deterrenza, certezza della pena, protezione delle potenziali vittime. Serve equilibrio, sì. Ma serve anche coraggio: quello di dire che ci sono limiti che non si possono oltrepassare. Neppure a 14 o a 16 anni. Neppure con mille attenuanti. Perché la vita di una ragazza vale più della speranza di recuperare il suo assassino.

Dobbiamo smetterla di salvare l’immagine di una società che si mostra solidale, ma non sa più difendere nessuno. I ragazzi non possono essere considerati adulti. Non devono esserlo. Dovrebbero capirlo le famiglie, la scuola, gli influencer, i produttori musicali e cinematografici, i “geni” della tecnologia. Ci siamo piegati ad una società che brucia tappe ed emozioni e guai a dire che è uno schifo. Diamo ai ragazzi accesso illimitato a tutto: tecnologia, sessualità, autonomia apparente, però non diamo loro ciò che conta davvero: esempi, valori, limiti, regole. Non li educhiamo. Non li prepariamo alla vita vera, al sacrificio, al fallimento. Anzi: insegniamo loro che “la vita è adesso”, che bisogna viverla tutta, subito. Che chi si sacrifica è uno sfigato. Che lavorare duramente e avere l’ambizione di costruire è roba da boomer.

Che siamo di passaggio, e che tanto vale consumare tutto: emozioni, soldi, corpi e relazioni. Abbiamo sostituito l’autorità con l’indifferenza. La fermezza con il permissivismo. La guida con l’assenza. Ed eccolo, il mondo che abbiamo creato: una società che marcia contro i femminicidi ma riesce a fermarli. Una società nella quale i ragazzi crescono convinti di poter fare tutto, perché nessuno glielo ha mai impedito. Tutto si giustifica. Tutto si tollera. Tutto è confuso. Anche l’amore a 14 anni, che raramente è amore. Che è emozione, bisogno, curiosità e gelosia, che spesso è emulazione di modelli tossici visti sui social, nei videoclip, nei messaggi sbagliati che nessuno corregge. È un sentimento che ha il nome dell’amore, ma non la sua sostanza. E se nessuno lo spiega, se nessuno lo educa, allora può diventare un’arma. Un pretesto per il possesso. Una scusa per l’annientamento.

Il vero fallimento è nostro. Degli adulti. Dei genitori troppo amici, degli insegnanti lasciati soli, dei giudici che non puniscono, di chi si volta dall’altra parte. Siamo noi ad aver smesso di educare, di guidare, di dire “così no”. Abbiamo lasciato che fosse il web a educare all’amore e alla vita. I risultati sono davanti ai nostri occhi. Ogni giorno. Con ogni nome che si aggiunge alla lista maledetta delle donne uccise. Serve una rivoluzione. Adesso. Una rivoluzione educativa, ma servono anche pene certe, dure, senza sconti. Allontanamenti immediati. Serve una nuova alleanza educativa: tra scuola, famiglia, istituzioni, media. Dobbiamo tornare a educare con il cuore e con la fermezza, con la vicinanza ma anche con l’autorevolezza. Martina non c’è più. La sua assenza pesa come un macigno. Ma il nostro silenzio, la nostra rassegnazione, pesano ancora di più. Questa volta, però, non basta il cordoglio.

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