Le parole rivelano molto più di quel che sembrano dire, svelano spesso l’indole di chi le pronuncia. Quelle dette da Aurelio De Laurentiis durante una recente intervista a una televisione abruzzese ne sono un esempio lampante. Commentando il lavoro dei giornalisti che raccontano nei telegiornali guerre, omicidi e tragedie, il presidente del Napoli ha avuto l’ardire di definirli “rompicoglioni”, bollandoli addirittura come “portasfortuna”, accompagnando il tutto con un gesto scaramantico di cattivo gusto che non vale la pena descrivere ma che ha il sapore insopportabile della volgarità, della superficialità e del disprezzo, in questo caso per un’intera categoria professionale.
Non è la prima volta che De Laurentiis insulta o delegittima il lavoro della stampa. È accaduto più volte, con toni sempre sopra le righe e con un atteggiamento da padrone delle ferriere che tutto può permettersi, forte dei successi sportivi e imprenditoriali. Ma non può essergli consentito tutto. Nemmeno nel nome dello scudetto e della fede azzurra. Ci sono limiti che non dovrebbero essere oltrepassati.
Già in passato, il presidente aveva dato prova di insofferenza nei confronti dei cronisti. Memorabili – in senso negativo – i suoi attacchi ai giornalisti sportivi definiti “inetti”, o le sfuriate in conferenze stampa in cui, invece di rispondere nel merito, aveva preferito insultare gli interlocutori.
Nel 2021 accusò la stampa napoletana di voler “creare zizzania nello spogliatoio”, e un‘altra volta, irritato per domande ritenute scomode, rispose con frasi irripetibili, trasformando il confronto in una gazzarra. Ma stavolta il limite è stato oltrepassato, perché De Laurentiis è andato oltre l’insulto, ha gettato discredito su una delle funzioni cardine della democrazia: informare i cittadini, anche – e soprattutto – quando le notizie fanno male, quando raccontano la sofferenza, la guerra, l’ingiustizia. In un mondo segnato da conflitti e crisi, definire “rompicoglioni” chi prova a tenere accesa una luce sulla verità è, semplicemente, intollerabile. È una dichiarazione che sa di ignoranza, nel senso più profondo del termine: ignorare il ruolo della stampa libera, ignorare il valore dell’informazione, ignorare il dovere morale e civile di chi lavora per dare voce a chi non ce l’ha.
La stampa non è uno spettacolo d’intrattenimento, e i giornalisti non sono comparse buone solo a raccontare favole. Creare ottimismo, semmai, dovrebbe essere un compito degli imprenditori chiamati a creare lavoro e ricchezza nei territori in cui operano, oltre che a fare, legittimamente, profitti milionari.
In quanto ai giornalisti, ogni giorno, donne e uomini del mestiere rischiano la vita in zone di guerra, affrontano minacce, fanno domande scomode, scavano laddove molti preferirebbero tacere. Senza quel “fastidio”, senza quei “rompicoglioni”, la società sarebbe più cieca, più superficiale, più manipolabile.
E forse anche le fortune di De Laurentiis sarebbero minori.
Ma le dichiarazioni di De Laurentiis sono gravi anche per un altro motivo, perché pronunciate da uomo simbolo di un successo straordinario come quello azzurro, dunque osannato da migliaia di tifosi.
Ancor più inquietante del suo ragionamento sgangherato, sono infatti, i messaggi che hanno inondato i social, in una giostra di like, applausi e compiacimenti che mettono i brividi. Tantissimi “seguaci” di De Laurentiis hanno applaudito lo “show”.
Un pezzo di società che, anziché indignarsi, ha preferito sghignazzare. Ed è proprio dentro quel consenso acritico e inconsapevole che si agitano i peggiori mali della nostra società: intolleranza, odio, superficialità, ignoranza. È lì che prende forma un clima pericoloso, che deride chi informa, che banalizza la sofferenza, che alimenta sfiducia e delegittimazione nei confronti di chi cerca di raccontare il mondo per quello che è, non per quello che vorremmo sentirci dire.
Screditare la stampa è un gioco pericolosissimo. Lo è sempre stato, nella storia. Perché ogni volta che si è delegittimato chi racconta, si è preparato il terreno a qualcosa di molto più grave: all’oscurantismo. E l’oscurantismo, nella storia, ha sempre favorito i più forti, mai i più giusti.
Allora no, non possiamo abituarci. Non possiamo archiviare l’ennesima uscita di De Laurentiis come folclore o eccesso caratteriale. Il linguaggio è sostanza, e chi ha una responsabilità pubblica ha anche un dovere morale: contribuire alla crescita culturale del Paese, non al suo impoverimento.
Lo stile, si dice, è l’uomo. Ma quando lo stile viene smarrito, e l’arroganza viene applaudita, allora non è solo l’uomo a fare una brutta figura. È tutta una società che rischia di scivolare verso il baratro dell’ignoranza organizzata. Un suggerimento, se ci è concesso, vogliamo darlo anche noi al presidente del Napoli. A pochi passi da dove si è celebrata con orgoglio e passione la conquista del quarto scudetto in uno scenario da sogno, è stata installata un’opera d’arte che rappresenta esattamente il contrario dello show a cui abbiamo assistito. Si chiama “Silent Hortense”, l’ha firmata Jaume Plensa: è una scultura monumentale, il volto sereno e silenzioso di una giovane donna che invita alla contemplazione e alla riflessione. Lì dove un tempo c’era Pulcinella di Gaetano Pesce – simbolo anche della parola, della battuta, della teatralità – oggi c’è un volto che tace, che ascolta, che medita. Forse, caro presidente, una visita potrebbe farle bene. Potrebbe scoprire che, a volte, il silenzio non è un’assenza. È una scelta. È dignità. È profondità. È rispetto. E soprattutto: è la cosa migliore, quando non si hanno cose importanti da dire.