Donne e lavoro in Italia: guadagnano di meno, lavorano di più, vanno in pensione più tardi
Nel 2025, essere donna in Italia continua a significare guadagnare meno, lavorare di più e andare in pensione più tardi, con un assegno decisamente più basso. A confermare questa realtà, non sono semplici percezioni ma i numeri freddi dell’INPS, riportati anche nei più recenti articoli di testate affidabili come l’agenzia di stampa Ansa. Eppure, nei salotti televisivi e nelle pagine di molti quotidiani, il tema resta trattato con superficialità o addirittura ignorato. Secondo il Rapporto Inps 2025, le donne vanno in pensione più tardi rispetto agli uomini (65,5 anni contro 64, secondo i dati 2024), nonostante spesso abbiano carriere lavorative più brevi o discontinue. Il motivo? Maternità, cura familiare, part-time involontari. Il risultato è doppio: meno contributi versati e pensioni più basse. Nel primo semestre 2025, le pensioni femminili sono inferiori del 30% rispetto a quelle maschili. In media, una donna percepisce 1.009 euro al mese, contro i 1.449 euro degli uomini. Un divario che ha poco a che vedere con il merito o con il sacrificio: è il riflesso diretto di un sistema che non tiene conto delle diseguaglianze di partenza. Una delle responsabilità principali di questo squilibrio ricade sul mercato del lavoro: le donne italiane sono meno occupate (circa il 52% contro il 70% maschile) e più frequentemente impiegate in ruoli part-time, spesso non per scelta. Il gender pay gap è ancora tristemente presente: in alcune professioni, la differenza salariale raggiunge il 23-32%, a parità di ruolo e competenze. È ovvio, quindi, che questa frattura si rifletta anche nella fase previdenziale: meno salario significa meno contributi e di conseguenza pensioni ridotte. Il sistema previdenziale ignora completamente il lavoro non retribuito di cura, che in Italia continua a essere sostenuto per oltre l’80% dalle donne. Chi si ferma per accudire un figlio o un genitore malato, semplicemente scompare dal radar contributivo. Eppure, quel lavoro ha un valore sociale enorme, che lo Stato si limita a riconoscere a parole. Un caso esemplare è quello dell’Opzione Donna, la misura che consentiva alle lavoratrici di andare in pensione anticipata accettando un ricalcolo contributivo dell’assegno. Dal 2023 in poi, questa misura è stata via via ridotta, fino quasi a scomparire nella pratica: l’età di accesso è stata aumentata, le condizioni rese più rigide. Il numero di beneficiarie si è così abbassato drasticamente. Nel 2024, le pensioni anticipate femminili sono crollate del 23% rispetto all’anno precedente. Non si spiega abbastanza, ad esempio, che l’attuale sistema contributivo puro, entrato a regime per i più giovani, è penalizzante per chi ha carriere discontinue. Il rischio è quello di trasformare il diritto alla pensione in una concessione misera, specie per le donne. È inaccettabile infatti che in un Paese del G7, nel 2025, le pensioni femminili siano in media del 30–34% inferiori a quelle maschili e che il 64% delle donne pensionate riceva meno di 750 euro al mese. Questi non sono numeri: sono sintomi di un fallimento. Non si può ignorare, inoltre, il peso della povertà previdenziale al femminile: con assegni così bassi, moltissime donne anziane restano economicamente dipendenti da mariti, figli o dallo Stato. L’autonomia finanziaria post-lavorativa è un miraggio per gran parte della popolazione femminile over 65. Secondo recenti rilevazioni, solo l’1,2% delle pensioni femminili supera i 3.000 euro, mentre lo stesso vale per quasi l’8% di quelle maschili. Questo significa che l’iniquità non solo esiste, ma si concentra proprio laddove dovrebbe esserci maggiore tutela. In questo scenario, la riforma delle pensioni annunciata per il 2026 rappresenta una delle ultime occasioni per introdurre misure realmente eque. Le proposte sul tavolo includono: rivalutazione automatica delle pensioni basse, riconoscimento più ampio dei contributi figurativi per periodi di cura, incentivi all’occupazione femminile stabile, e meccanismi di ricalcolo che tengano conto della disparità di partenza. Ma senza pressione sociale e mediatica, anche queste promesse rischiano di restare carta. La questione pensionistica femminile non è un tema settoriale o tecnico, ma una cartina di tornasole della giustizia sociale in Italia. E oggi, nel 2025, quella cartina ci dice che siamo ancora molto lontani da una vera equità. Le donne non vogliono privilegi: vogliono un sistema che riconosca il loro lavoro, retribuito o meno, e che non le punisca due volte, prima nel mercato e poi in pensione.


