Castellammare, un murales che brilla d’oro che racconta le fratture del rione Petraro
CRONACA
7 agosto 2025

Castellammare, un murales che brilla d’oro che racconta le fratture del rione Petraro

metropolisweb

“Reale”: il murales che brilla d’oro tra le ferite del Rione PetraroDi fronte a due scugnizzi armati solo di uno sguardo complice e una fionda, il silenzio si fa sacro. Succede nel Rione Petraro, periferia viva e pulsante tra Castellammare e Santa Maria la Carità, dove l’artista urbano Taddeo Del Gaudio, in arte Reale, ha realizzato un murales che è più di un’opera d’arte: è una dichiarazione d’identità.Il murale raffigura due bambini: uno tende la fionda, pronto a colpire. L’altro porta il dito alla bocca, come a dire “Shh”. Ma non c’è paura, non c’è fuga. C’è protezione. C’è il gesto antico di chi custodisce, di chi cresce nei vicoli imparando a brillare attraverso il dolore.Sui loro volti, una ferita color oro: un richiamo esplicito alla tecnica giapponese del Kintsugi, l’arte di riparare le crepe con l’oro, rendendo le cicatrici la parte più preziosa. “Hanno la pelle segnata – racconta Reale – ferite dalle quali esce oro. Perché chi cresce tra i vicoli impara che il dolore può brillare.”Sopra le loro teste, campeggia una scritta netta:“Figli di Dio, fuori dagli schemi dentro il reale.”Un manifesto che è anche un promemoria. A chi guarda, a chi passa, a chi si riconosce.Un altare laico alle infanzie dimenticate“Racconto questo murale come un altare laico alle nostre infanzie cucite a mano – dice Reale – tra muri scrostati e cieli stretti, dove i sogni si urlavano forte per non farli morire, perché ‘anche noi esistiamo’.”Dentro quei volti, c’è una generazione intera: “Io, Gaetano, Michele, Ciccio, Antonio, Vincenzo. Stamm’ ancor’ là, in questo Vico che ci cresceva come una mamma, ancor ’nsiem, in silenzio, sacro, come figli di Dio.”Per Reale, 27 anni, studente all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ogni opera è una chiamata. Una missione che nasce dall’ingiustizia, dalla necessità di “parlare reale”, come recita il suo motto. “Perché l’ingiustizia non m’appartiene”, dice. E la strada, i muri, i volti, diventano la sua tela e la sua coscienza.Il quartiere, la gente, l’ereditàIl Rione Petraro non è solo il luogo dell’opera. È il grembo che lo ha cresciuto, il posto che lo ha visto diventare uomo e artista. “Io conosco lui, lui conosce me”, dice Reale parlando del suo quartiere. “Gli anziani che mi portavano il caffè mentre dipingevo per me erano fondamentali. Rappresentano l’eredità di quel rione che viene lasciata a me e alle future generazioni.”La risposta del quartiere non si è fatta attendere. “La gente si ferma, osserva, si meraviglia. Qualcuno dà consigli, altri chiedono: ‘Questo è il tuo lavoro?’. Io rispondo: ‘Fa parte di me. Sono me stesso in questo momento’.”Ma c’è anche chi resta in silenzio, con l’amaro in bocca. “Forse – riflette Reale – cercano risposte concrete. Ma io credo che il mio obiettivo lo raggiungo quando le persone si pongono delle domande. Chi si interroga è una persona che pensa.”Arte in evoluzione, vita in movimentoIl murales non è solo un’opera finita, è un passaggio. Un segno di cambiamento. “Mi sento diverso dal mio ultimo lavoro, e questo è un bene. Vuol dire che non sono in una fase di stallo, ma in evoluzione personale e artistica.”I progetti futuri ci sono, ma restano segreti. “Non perché sono scaramantico, ma perché preferisco parlare di ciò che ho fatto, non di ciò che potrei solo dire. Da questo punto di vista, amo la concretezza.”Per Reale, ogni volto, ogni angolo, ogni storia vissuta nei luoghi dove lavora, lo prepara ai murales che verranno. “Mi ispirano i sentimenti, le delusioni, le emozioni che mi fanno provare le persone importanti che incontro nella mia vita. Di solito non sono pittori, ma gente comune, che dentro di loro nascondono mondi.E allora lascio dei segni invisibili dentro l’opera. Chi sa leggere, li trova.”E così, tra i muri del Petraro, è nato un altare senza croci, un inno silenzioso e potente a un’infanzia fatta di vicoli e sogni urlati. Un’opera che non cerca risposte, ma pone domande. E in fondo, è questa la forza dell’arte: non dire chi siamo, ma ricordarci che esistiamo