Castellammare, gli «agenti immobiliari» al servizio dei D’Alessandro a caccia di case blindate per summit e latitanze
Giravano per le strade di Scanzano e del centro antico, poi chiamavano gli affiliati del clan D’Alessandro: «Questo luogo è perfetto, qui potete fare il summit». Il clan D’Alessandro, attivo da mezzo secolo a Castellammare, aveva ramificazioni capillari in tutti i quartieri sotto il suo controllo, e lo poteva fare grazie ad un esercito di insospettabili al suo servizio. Ognuno aveva un compito preciso: c’era chi custodiva le armi, chi segnalava l’apertura di nuovi cantieri da taglieggiare con richieste estorsive, e chi invece era incaricato di individuare luoghi sicuri o abitazioni abbandonate da utilizzare per i summit di camorra o per ospitare latitanti della cosca di Scanzano. È quanto emerge dall’inchiesta “Domino III”, l’indagine condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Torre Annunziata, che ha portato all’arresto del gruppo facente capo al boss Vincenzo D’Alessandro, 49 anni, considerato il reggente del clan tra il 2020 e il 2022. Tra i tanti insospettabili al servizio della cupola di Scanzano spuntano anche figure che potremmo definire come una sorta di “agenti immobiliari”: soggetti che, per conto del clan, giravano tra le strade dei quartieri sotto controllo alla ricerca di immobili da destinare a incontri riservati tra i boss e gli affiliati. L’identikit del luogo ideale era molto chiaro: servivano case o locali lontani dalle arterie principali, dotati di più accessi e vie di fuga, e soprattutto distanti da occhi indiscreti, come quelli delle telecamere di videosorveglianza pubbliche e private. Tutto doveva essere studiato nei minimi dettagli, con l’obiettivo di eludere ogni tipo di controllo e garantire che le riunioni, nelle quali si decidevano le strategie operative del clan, non venissero intercettate. Nonostante tutte queste precauzioni, gli investigatori dell’Arma e gli agenti dell’Antimafia sono riusciti a monitorare numerosi summit, anche grazie all’uso di spyware installati sui cellulari dei fedelissimi del boss Vincenzo D’Alessandro. Ma non solo. Gli inquirenti sono riusciti persino a intercettare l’intera fase organizzativa di uno di questi incontri, captando i movimenti di uno degli insospettabili incaricati di trovare un’abitazione per un summit che si sarebbe dovuto tenere di lì a poco. L’uomo, pur non essendo finito formalmente sotto indagine, ha rischiato seriamente un’accusa di favoreggiamento. Un’ipotesi poi accantonata, forse perché ritenuto una vittima del sistema, un soggetto che non aveva scelta e che non avrebbe mai potuto rifiutare l’ordine di alcuni colonnelli della cosca. E proprio attraverso una conversazione intercettata, è emerso in modo limpido la strategia e il modus operandi di Vincenzo D’Alessandro, terzogenito del padrino Michele D’Alessandro. Il boss, descritto nelle informative della Dda come uno dei più spietati e vendicativi della storia criminale del clan, era estremamente cauto e meticoloso: nulla veniva lasciato al caso. Si muoveva armato e sempre scortato per le strade della città, adottando tutte le precauzioni necessarie per evitare ogni rischio di intercettazione. Ogni summit seguiva uno schema rigido: gli affiliati entravano per primi da un ingresso prestabilito, mentre il capoclan arrivava in ritardo, solitamente con una mezz’ora di scarto, e faceva il suo ingresso da un accesso secondario. Alla fine dell’incontro, il copione si ripeteva: il boss usciva per ultimo, da una via diversa da quella dei suoi uomini, riducendo così al minimo le possibilità di essere localizzato o registrato.


