Un campo largo con visione ristretta
Il centrosinistra campano è ormai avvitato in una profonda crisi di uomini e di idee a malapena coperta da una foglia di Fico. Il Pd, fatta eccezione per qualche big che assumerà importanti responsabilità di governo regionale, sembra invece irrimediabilmente inerte, come il chiodo arrugginito di un uscio, per dirla con Dickens dal momento che si voterà a ridosso di Natale.
Chi invece è vivo e vegeto è lo sceriffo di Salerno, che da abile stratega ha trasformato la sconfitta del terzo mandato in un accordo più che vantaggioso per sé e per i suoi fedelissimi: due assessorati di peso nella futura giunta regionale (uno alla sanità, si vocifera), un plotone di consiglieri pronti a fare da ago della bilancia e per finire il ruolo di segretario regionale del Pd per suo figlio Piero, il che gli servirà come il pane quando la luna di miele post-elettorale sarà finita e arriveranno i sentieri stretti e tortuosi delle scelte amministrative. Una contropartita accettabile per mandar giù la leadership grillina. Per annacquare un decennio di accuse e dichiarazioni contro il Movimento che hanno fatto la fortuna di Crozza.
Roberto Fico presidente è semplicemente la restaurazione col volto della novità, una farsa scritta con grande maestria, tanto da farla sembrare una vittoria strategica del M5s agli stessi grillini. Qual è stato il prezzo di questo accordo è palese, quali saranno invece gli effetti sul centrosinistra lo si capirà in futuro. In termini elettorali, e in termini amministrativi. Il rischio è di aver messo in piedi un campo largo con una visione ristretta, che appena fuori dal porto potrebbe ritrovarsi a navigare tra le alte onde dell’ingovernabilità.
Sul fronte squisitamente politico, Roberto Fico candidato alla presidenza della Regione Campania è la sintesi di una trattativa al ribasso, nella quale ogni forza politica ha pensato prima di ogni cosa, e forse esclusivamente, a tutelare rendite, equilibri interni e posizioni di potere. L’accordo raggiunto con la benedizione delle segreterie romane è l’antitesi della politica, per dirla senza peli sulla lingua. Un compromesso di potere. E alla base di questa intesa quasi innaturale c’è stata nuovamente la necessità di coalizzarsi per non perdere, dunque l’esigenza di trovare la solita formula elettoralmente vincente. Ciò che allontana gli elettori, insomma, ciò che incoraggia l’astensionismo.
Il punto di partenza del centrosinistra era deprimente: una sinistra politicamente afona e priva di leadership credibili, un Pd De Luca-dipendente e devastato dalle strategie adottate da vertici regionali degli ultimi due decenni, una vasta area moderata ammaliata ora dalle sirene del centrodestra ora dai miraggi di un terzo polo indipendente. In questo scenario, il M5s è diventato un salvagente vitale per un centrosinistra alla deriva. Da gonfiare e possibilmente da sgonfiare al momento del cessato pericolo. Forse i grillini non hanno calcolato il rischio, o forse lo hanno fatto e lo hanno giudicato accettabile, o magari è stata più forte di ogni dubbio la voglia matta di poter stringere finalmente le leva del potere in Campania.
Ai grillini, Roberto Fico presidente della Regione Campania sarà sembrato il giusto prezzo per sotterrare il passato, per sconfessare anni di propaganda forsennata. La leadership in cambio del sostegno al campo largo davanti al quale, almeno in Campania, il M5S agitava le croci come un sacerdote esorcista impegnato a scacciare satana.
Ma si sa, in questa politica post-ideologica le cose cambiano velocemente senza l’angoscia di doverle spiegare alla base, il più delle volte in maniera incomprensibile. Di conseguenza, anche il centrosinistra e il Pd all’improvviso hanno rimosso i tempi bui degli attacchi scriteriati del movimento populista, demagogico e giustizialista che costruiva il consenso sulla demolizione sistematica del mondo democratico e progressista. Hanno dimenticato che Roberto Fico frequentava gli stessi pulpiti dei neo moralisti della politica che puntavano l’indice contro il Sistema e che poi sono spariti senza mai aprire nemmeno una scatoletta di tonno.
Roberto Fico diventa è il «patto» da far ingoiare alla base che però, rispetto ai vertici, dimentica sempre con maggiore difficoltà. L’unico appiglio oggettivo è il percorso di redenzione fatto da Presidente della Camera. Questo rende Fico il «male minore» ma resta pure sempre un male, come sussurrano in molti angoli dem della provincia. Non a caso, da più parti si sollevano già dure critiche: «Manca una visione politica autentica». Oppure: «L’accordo risponde a logiche di spartizione del potere, più che a un disegno di rilancio del centrosinistra». E ancora: «Un plateale compromesso di vertice, figlio di un equilibrio precario, in cui ogni parte ha ottenuto qualcosa».
Persino la segretaria nazionale del Pd, Elly Schlein, che solo formalmente ha vinto il braccio di ferro con Vincenzo De Luca, che al massimo strapperà la segreteria metropolitana per un suo fedelissimo in Campania ma che si porterà sulle spalle la responsabilità politica, tutt’altro che marginale, dell’intesa, che secondo molti stride coi principi di trasparenza e selezione meritocratica della classe dirigente che predica.
La grande fortuna del campo largo messo in piedi nonostante le crepe è che dall’altra parte c’è un centrodestra ancora più devastato e folle, che avrebbe potuto cogliere l’occasione di proporre un’alternativa moderata e credibile e che invece si sta smarrendo irrimediabilmente in personalismi esasperati e ottusi. Anzi, sta facendo di tutto per non essere nemmeno della partita alle prossime Regionali.
E in questo scenario desolante gli elettori si ritroveranno ancora una volta di fronte a un bivio amaro: scegliere tra la rassegnazione e l’astensione, tra un’offerta politica vissuta come distante e autoreferenziale e un’alternativa costruita lontano dalla base. Un’altra istantanea amara di una democrazia in affanno, dove i compromessi non sono ponti verso il futuro ma trincee per conservare il potere.

