“Napoli milionaria”, quando Eduardo portò in scena il dolore di tutti per la guerra
“Io avevo detto il dolore di tutti”. Così Eduardo provava a fare sintesi di uno dei periodi più cupi della storia d’Europa, con quella Napoli sconquassata dai bombardamenti alleati che l’avevano rasa al suolo in tanti suoi storici meandri, in tante sue rappresentative secolari chiese del centro, una città che era pur sempre stata una grande capitale – ormai avviata al declino già dopo la fine della guerra precedente – ancora capace di darsi una sua libertà da sola, cacciando i tedeschi senza stare troppo a tergiversare, prima città a liberarsi da solo dal giogo nazifascista, senza aspettare gli alleati. Il tutto mentre il Vesuvio aveva smesso di tacere, al punto che alcuni tra i migliori scatti del vulcano infuriato ce li hanno lasciati proprio gli aviatori statunitensi. Lo abbiamo rivisto di recente in RAI, Napoli milionaria, uno spettacolo teatrale di fama infinita e ripreso in un film dello stesso Eduardo, il lungometraggio oggetto principale di questo articolo, riportato da poco sul piccolo schermo in una versione televisiva che ha fatto discutere, che è piaciuta e non è piaciuta, e che si è presa però la briga di intrigare, tenendosi per protagonisti due affermati attori della televisione come Massimiliano Gallo e Vanessa Scalera, una coppia ormai rodata. Una versione che nel titolo teneva fede all’originale opera teatrale del 1945, di appena cinque anni precedente al film di De Filippo, perché non tagliava fuori quel punto esclamativo finale che il testo aveva e che la versione cinematografica del 1950 invece espungeva. Un manifesto neorealista, forse, quello di De Filippo senior, padre putativo di tanti intellettuali ma anche inavvicinabile per tanti versi, freddo fino al punto di divenire algido in campo culturale, poiché inimitabile (esiste infatti un suo erede? Io credo di no, e penso che mi spalleggerebbero in molti nel dire questo); un artista del logos, forse, che introdusse in Italia un nuovo modo di pensare, di ragionare sul conflitto bellico, anche in relazione all’occupazione statunitense di Napoli e a una vita che ricominciava senza tornare a essere mai più la stessa, nonostante le apparenze. Anche come protagonista attoriale della versione cinematografica, Eduardo è il perno di un mondo perduto e di una città (un Paese?) che non è più in grado di riconoscere sé stessa. Ma lo smarrimento della sua figura è più estraneità che dolore. Gennaro diventa esule in terra, straniero in tutti i sensi, quasi nel significato con il quale lo intendeva Camus, forse: ovvero un estraneo. E sembra la sua una terra che non voglia più ascoltarlo, che non sia propensa a ripiombare nel baratro con i suoi racconti, che voglia dimenticare. Una situazione che somiglia a scorci che ci mostra la nota canzone Simmo ‘e Napule paisà, non a caso scritta proprio nel 1944, l’anno prima della commedia teatrale; passata alla storia soprattutto per il verso chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato – una frase spesso ripetuta in circostanze affini – ma che a ben vedere sembra parlare la stessa lingua della commedia di Eduardo in tanti passaggi tragici e nostalgici: Quanno sta a Santa Lucia “Signurì”, ce dice a nuje “Ccà ce steva ‘a casa mia” “So’ rimasto surtant’ie’”. E c’è qualcosa in questo aspetto che sorprendentemente accomuna De Filippo al cinema americano del tempo, solo in apparenza così lontano: il tema dei reduci. Sono poi così tanto diversi i Robert Mitchum che affollano il firmamento hollywoodiano nei noir degli anni ’40? Uomini tormentati, incompresi, che sentono ancora il rimbombo delle esplosioni delle orecchie. Uomini non più abituati alla quiete, alla normalità, alla festa. E che forse non si abitueranno mai più. È un film però questo anche parzialmente irrisolto a livello narrativo: per alcuni personaggi come quello di Totò, che fluttua genialmente – come lui sa fare – un po’ nell’aria, utilizzando soltanto parte del suo potenziale, forse anche per evitare di bloccare il viale principale al collega protagonista. È anche un film intriso di sociale più che di esistenzialismo, il che non sposa del tutto l’indole riflessiva eduardiana che nel teatro ha cavalcato entrambe queste dimensioni passando dall’una all’altra con una certa disinvoltura niente affatto scontata, anzi tutt’altro. Un genio compreso, Eduardo, e che quindi fa eccezione: da sempre in bilico tra elitario e nazionalpopolare, come questo suo manifesto che attraversa le epoche, i ceti sociali e culturali, le stratificazioni di una città complessa che si arrocca e si aggroviglia dentro il suo labirinto. E la gestione stesso dello spacco tra anteguerra e postguerra assume in Napoli milionaria toni narrativi un po’ indefiniti, quasi “cartonati”: uno iato che fa dell’opera uno spazio conteso tra la storia e mitologia, così come la stessa città di Napoli ha sempre vissuto sospesa tra più mondi e definizioni.

