Dalla teocrazia alla prudenza, in questo mondo in guerra la Chiesa rischia la credibilità
Nel complesso mosaico di giochi di potere che caratterizzano i contesti geopolitici internazionali, il ruolo della Chiesa cattolica rischia di diventare marginale. Dalla devastazione della Striscia di Gaza all’invasione russa dell’Ucraina, gli appelli del Papa sembrano sgomitare invano sopra i tavoli delle trattative. Nel corso della storia, il Vaticano ha sempre saputo stabilire un proprio ruolo nelle decisioni, a favore, contro oppure volutamente ambiguo, andando anche al di là del proprio ruolo religioso. La teocrazia medievale, tanto per citare un esempio, è stata una costante sfida al potere degli imperatori.
I Pontefici non sono mai stati solo guide spirituali, hanno stipulato concordati, hanno incoronato imperatori, hanno mediato tra regni in conflitto e, storia del Novecento, hanno stretto patti con regimi totalitari. Quelli Lateranensi con l’Italia fascista, per esempio. Seppur con scelte controverse, spesso arrivando a mettere in crisi l’equilibrio morale del quale avrebbero dovuto essere garanti, i pontefici non sono mai rimasti ai margini della politica.
Oggi, invece, la prudenza appare come complicità. I silenzi vengono vissuti come diserzione morale. Soprattutto da noi giovani, abituati a prendere posizione in modo netto. Pur chiedendoci fino a che punto un Papa può compromette il dialogo dietro le quinte, per loro il linguaggio misurato del Vaticano ci sembra fuori dal tempo. E in questo mondo frammentato e polarizzato, la Chiesa cattolica rischia di diventare irrilevante. E’ chiaro che il Vaticano sia autorità spirituale e attore politico internazionale insieme, ed è altrettanto ovvio che questa doppia natura lo rende unico ma anche fragile. Che è complicato l’equilibrio tra la funzione profetico-morale, legata alla denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, della guerra, e quella diplomatico-prudenziale, che impone cautela per mantenere canali aperti anche con regimi autoritari o responsabili di crimini. Ma ci sono momenti della storia in cui il Papato dovrebbe scegliere di esporsi chiaramente, a costo di rompere equilibri.
Senza risalire troppo indietro nella storia, Karol Wojtyla è stato uomo di azione, sostenitore di Solidarnosc, protagonista attivo della caduta del Muro di Berlino. A suo modo, anche Jorge Mario Bergoglio. è stato un Papa di rottura: ha sovvertito ogni paradigma, ha scosso la Chiesa dalle fondamenta, è stato il primo a parlare apertamente di una «Terza guerra mondiale a pezzi». Ha condannato con forza il genocidio armeno, scontrandosi con la Turchia. Ha costruito un rapporto forte e simbolico con il grande imam dell’università egiziana, punto di riferimento per milioni di sunniti nel mondo. Robert Francis Prevost ha invece scelto un’altra linea: ha denunciato il genocidio palestinese e l’orrore in Ucraina, ma ha dato l’impressione di un approccio più prudente, meno battagliero. Forse per paura di compromettere trattative segrete. Forse per non esporre le comunità cristiane a ritorsioni. Forse perché parlare troppo presto o troppo forte potrebbe chiudere vie diplomatiche. Non c’è stato il coraggio di Wojtyla e di Bergoglio e il rischio è che, cercando l’equilibrio tra denuncia e prudenza, la Chiesa abbia finito per perdere entrambe le cose. La forza morale, senza denuncia potente all’ingiustizia, e l’efficacia diplomatica.
Non a caso, l’atteggiamento del Vaticano è stato rappresentato da Jorit con lo sguardo basso e forse sconfitto di Papa Bergoglio al cospetto di un bambino palestinese sulle mura dell’ex carcere di Gragnano. «Un segnale di impotenza e di imbarazzo», come l’ha definita l’artista. uno dei pochi sussulti è arrivato alla fine, alla vigilia del cessate il fuoco su Gaza, quando il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, tra i papabili all’ultimo Conclave, ha condannato fermamente Hamas e la spropositata risposta di Israele. Davanti alle polemiche, il Pontefice, costretto ad intervenire, ha detto in maniera netta: «Parolin ha espresso il pensiero della Santa Sede». Uno scossone, certo, che però non è bastato a convincere del tutto, a scacciar via la sensazione più diffusa tra noi giovani, sempre più convinti che dopo la morte di Papa Francesco, il Vaticano abbia voluto scegliere una guida meno audace e meno rivoluzionaria che ha offuscato il suo ruolo centrale e per certi versi determinante al quale ci aveva abituati il Papa arrivato dalla fine del mondo.
Legittimamente si è scelto di mettere l’accento sul profilo diplomatico-prudenziale, penalizzando l’azione, ma il risultato è che in questo trambusto geopolitico i sussurri del Papato sono stati quasi del tutto coperti dalle urla di Trump e dalle violente dichiarazioni di Netanyahu. Una sensazione che rischia di incidere sulla credibilità della Chiesa cattolica, il cui futuro è minato in quest’epoca frammentata, multipolare e digitalizzata, nella quale l’universalismo cattolico si scontra con la pluralità delle fedi, con il crescente peso politico di altri leader religiosi, con l’indebolimento della presa del Vaticano su vasti segmenti della popolazione (soprattutto in Europa e America Latina). E non è secondario il fatto che, mentre il Pontefice è imprigionato tra diplomazia e profezia, gli altri leader spirituali riescono a denunciare con forza le ingiustizie liberi come sono dal peso del potere statale. Per fortuna, al netto delle strategie giuste o sbagliate pianificate all’ombra di San Pietro, la Chiesa è anche un esercito di parrocchie, organizzazioni non governative e reti che conta sulla forza di un esercito di fedeli estremamente numeroso e fortemente presente. Un esercito che arriva anche dove non arriva con forza la voce del Vaticano.

