Quando i “vandali” divennero visionari. La Street Art sa parlare ai giovani
L’arte è naturalmente uno strumento di denuncia. Lo fu per Artemisia Gentileschi, che dipinse la violenza subita attraverso la figura di Oloferne decapitato da Giuditta. Lo fu per Pablo Picasso, che consegnò al mondo la Guernica, un dipinto straordinariamente inquietante per l’orrore della guerra che lo abitava. Lo fu anche anche per Andy Warhol, che mise l’accento sul consumismo americano e che in più capì la necessità di ricorrere ad una forma d’arte più libera, che portasse le opere fuori dalle sale dei musei per fondersi con il mondo massmediatico e con il grande pubblico. Ne fu convinto a tal punto che le icone della sua Pop art, stampate sulle borse e sulle t-shirt, iniziarono a confondersi tra la gente, sui bus, sui treni della metrò e in ogni possibile angolo di strada. Un seme della street art, per certi versi.
Nasce la Factory, laboratorio di sperimentazione nel quale ogni forma di arte concorre a veicolare i messaggi al grande pubblico. I protagonisti di questo nuovo modo di pensare, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, invadono le strade di New York e si intrufolano con la stessa facilità nella mondanità luccicante, nelle metropolitane buie e nei vicoli dei bronx. La street art, che era nata con i movimenti underground di un decennio prima, legati alla cultura hip-hop, spicca il volo e inizia a correre sui vagoni della metropolitana di New York e nella città di Philadelphia. E’ proprio nei sobborghi americani che avviene la prima vera contaminazione, è qui che la Pop art di Warhol incontra i graffiti di Jean-Michel Basquiat firmati Samo, cioè l’acronimo di «Same Old shit» (ovvero «sempre la stessa merda»).
Erano gli anni dei potenti messaggi di rottura, quelli in cui si formavano nuove coscienze sociali e si lottava per quelli che oggi ci sembrano elementari e scontati diritti sociali e civili. Anche Blek le Rat, definito «il padre dello stencil moderno», inizia ad «imbrattare le metropoli». La street art dilaga, ma inevitabilmente ha più denigratori che sostenitori. Viene considerata «vandalismo» più che forma d’arte. Un limite, ma anche un punto di forza. Come ogni “novità”, l’arte di strada fa proseliti tra i giovani, viene considerata rivoluzionaria e innovativa, una forma di denuncia più libera e decisamente più potente di quelle alle quali l’arte tradizionale aveva abituato il mondo.
La street art trasforma ogni angolo delle metropoli, l’universalità del suo linguaggio si manifesta grazie alla capacità di comunicare ad un pubblico sempre più ampio e diversificato per mezzo dell’immediatezza dei messaggi e della vicinanza al contesto sociale. Non ha bisogno di essere cercata, la street art va incontro al pubblico. Anzi, lo cattura, lo costringe a fermarsi, ad interrogarsi, a riflettere, a capire. Nei quartieri marginalizzati, assume un ruolo determinante: restituisce dignità e colore, rappresenta un’alternativa al degrado, un’arma di rigenerazione urbana. Genera addirittura un fortissimo senso di appartenenza a quelle che i residenti cominciano a considerare gallerie d’arte a cielo aperto.
Via via, quelli che venivano considerati “graffiti” (Darryl McCray è considerato il primo artista di questo genere), tracce di denuncia in una terra che marginalizzava la cultura latino-americana e afroamericana, diventano opere sempre più complesse e ricche di significati. Le strade delle metropoli, e non solo, diventano mostre perenni, graffiti e murales invadono gli spazi ed entrano nel nostro quotidiano. L’arte urbana risulta spiccatamente inclusiva e accessibile e ha la forza di imporsi. Se hai un murale davanti, l’unica cosa che puoi fare è fermarti a guardarlo. Ed è forse per questo che rappresenta il modo migliore per rappresentare storie di lotte, resistenza, ingiustizie sociali e degrado ambientale.
Oggi, grazie anche alla spinta mediatica, l’arte urbana nata come forma di ribellione è diventata uno dei linguaggi artistici più potenti e immediati. Ha un valore politico enorme. Ed ha un fortissimo impatto anche sull’economia turistica: basti pensare, banalmente, all’indotto generato dal murale di Maradona nei Quartieri Spagnoli, oppure ai risvolti legati allo Street art Festival che da qualche anno si tiene a Pompei con il contributo di decine di artisti internazionali. Ma anche quartieri come Wynwood a Miami o Shoreditch a Londra sono diventati mete culturali, qui l’arte di strada ha ridato nuova vita ad aree industriali dismesse che in pochi anni sono state trasformate in attrazioni artistiche.
Tra gli autori più importanti dei questa forma d’arte c’è senza dubbio Banksy. Le sue opere appaiono come per magia, sono lampi nel silenzio: messaggi politici e sociali dirompenti che fanno discutere, come il muro di separazione a Betlemme, che denuncia le condizioni drammatiche della Palestina. Anche JR, artista francese, merita un posto nella schiera dei grandi della street art. I suoi volti che appaiono sulle facciate dei palazzi dei rioni più degradati o nelle favelas di Rio de Janeiro, rendono protagonisti chi nella vita è condannato all’emarginazione e all’oblio. Paradossalmente l’arte della strada ha costretto i musei ad aprirle le porte, artisti come Blu, Shepard Fairey e Banksy hanno ottenuto riconoscimenti internazionali e le loro opere sono esposte in gallerie importanti.
Eppure, nonostante questo riconoscimento, gli interpreti della street art scelgono di continuare a lavorare per strada per conservare la connessione con il pubblico. Del resto, la street art nei musei non avrebbe senso, tradirebbe la sua vocazione, finirebbe di essere accessibile e diretta, in grado di comunicare a chiunque. Invece ogni murales nei quartieri periferici, nei vicoli, è l’arte di tutti, l’arte che abbatte le barriere, che porta messaggi potenti e significativi nella quotidianità. L’arte che appassiona i giovani.


