Ventimila tonni ributtati in mare. E molti muoiono. Il grande spreco alimentare
- Da Omero ai riti delle tonnare
- La memoria campana e il mito di Cetara
- Il ripopolamento, le quote e il rigetto
- Numeri del settore in Campania
- La concorrenza sleale della pesca illegale
- Negli allevamenti crescono i guadagni
- Il vero nemico resta il cambiamento climatico
Si chiude la stagione di pesca dei tonni rossi e si apre, puntualmente, quella delle riflessioni. Anche qui in Campania, dove il comparto genera un giro d’affari di 40 milioni di euro e dà lavoro a 4mila operatori. Il tema dibattuto è che mentre il tonno rosso è tornato a ripopolare il Mediterraneo dopo anni di crisi, la pesca resta imbrigliata nella rete della burocrazia tessuta nei Palazzi dell’Unione Europea. «Per favorire i mercati globali», denunciano i pescatori, che si considerano «schiacciati da regole severe e quote che limitano drasticamente le catture». In realtà, sostengono gli operatori della pesca professionale, i nemici dell’ecosistema sono altri: «La pesca illegale», per esempio. «Gli allevamenti intensivi», oppure il «Cambiamento climatico». E allora, vale la pena addentrarci nel racconto di un paradosso che mette a dura prova chi vive di mare e tradizioni, chi rischia di essere più un freno alla pesca artigianale che un aiuto concreto all’ambiente.
Da Omero ai riti delle tonnare
La pesca del tonno rosso ha radici antichissime che affondano nel mito e nella cultura del Mediterraneo. Dall’epoca fenicia ai pescherecci dei borghi marinari campani, questo maestoso pesce è stato il cardine di una storia millenaria fatta di saperi tramandati, riti collettivi e profondo rispetto per il mare. Non è solo economia, la pesca del tonno è parte della nostra identità che ha attraversato civiltà e generazioni. Già nell’antica Grecia, e poi durante l’Impero Romano, il tonno rosso è considerato una prelibatezza. Le fonti letterarie e archeologiche abbondano di riferimenti: Omero lo cita nell’Odissea, Plinio il Vecchio ne descrive le tecniche di conservazione dopo le campagne di pesca stagionali organizzate dai romani lungo le coste italiche. Il tonno viene salato, affumicato o immerso in olio e garum. Con l’introduzione delle tonnare, la pesca diventa un’istituzione. Nascono con gli arabi, si perfezionano nel medioevo: le tonnare fisse sono reti complesse, ancorate ai fondali, che intercettano i tonni durante la migrazione primaverile verso i luoghi di riproduzione. Quelle più celebri stanno in Campania, nei golfi di Napoli e Salerno. A Cetara, ci sono tracce di una tonnara sin dal X secolo e non a caso il borgo della costiera Amalfitana è ancora oggi il simbolo della pesca artigianale sostenibile. Le tonnare che operano fino ai primi decenni del Novecento non solo sono strutture tecniche, sono organismi sociali. L’organizzazione gerarchica della pesca coinvolge decine di uomini, tra rais (il capo), tonnaroti, rematori e manovali. La «mattanza», che oggi ci appare a ragione una cruenta tecnica di cattura, è un rituale che unisce lavoro, fatica e spettacolarità, tra canti, invocazioni di forte impatto emotivo.
La memoria campana e il mito di Cetara
Le strategie di pesca cambiano all’inizio del Novecento. La modernizzazione delle tecniche e la nascita della pesca industriale spingono le tonnare tradizionali prima in soffitta poi nell’oblio. In Campania, per esempio, sopravvivono solo le tracce dell’antica cultura delle tonnare: la memoria orale dei pescatori più anziani, piccoli musei locali, il tentativo di alcune comunità, come Cetara, di mantenere viva una pesca etica, stagionale e rispettosa del mare. Qui, la tradizione si tramanda anche attraverso la lavorazione artigianale del pesce: colatura di alici, tonno sott’olio, bottarga, prodotti simbolo di una civiltà marinara che ha fatto del pesce non solo cibo, ma rito, linguaggio e identità. Chi racconta la storia, sostiene che la vecchia pesca del tonno rosso era rispettosa degli equilibri: tra l’uomo e il mare, tra il bisogno di nutrirsi e il dovere di proteggere, tra antiche sapienze e sfide moderne. Cetara è rimasta un simbolo della pesca ai tonni, oggi conta 21 barche autorizzate alla cattura. Navigano tra la Calabria e le Isole Eolie, calano in mare reti di oltre due chilometri che vengono chiuse quando accerchiano i tonni. E’ la tecnica della circuizione. Una volta catturati i pesci, la gabbia viene trasportata con l’aiuto di mezzi più grandi fino agli allevamenti installati in Spagna o a Malta. Qui i tonni vengono ingrassati, macellati e venduti prevalentemente in Giappone dove, purtroppo, finisce il 90% del pescato del Mediterraneo.
Il ripopolamento, le quote e il rigetto
La pressione commerciale, l’uso dei radar, la proliferazione dei pescherecci a circuizione ridisegnano inevitabilmente la filiera del tonno rosso. Il business diventa esasperato, la domanda crescente di un mercato globale genera lo stravolgimento delle abitudini e fanno saltare quei delicati equilibri difesi per secoli dal buonsenso dei pescatori. Negli anni Duemila, la pesca intensiva e insostenibile, spesso illegale o incentivata da scarsità di regole efficaci, finisce per mettere a dura prova l’ecosistema marino e l’esistenza stessa dei tonni rossi nel Mediterraneo, spingendoli addirittura ad un passo dall’estinzione. Di fronte a questo scenario, nel 2007, l’Iccat (Commissione Internazionale per la Conservazione del Tonno Atlantico) introduce una serie di misure restrittive, tra cui quote rigorose e i controlli serrati. Le contromisure funzionano. A fronte dei sacrifici chiesti ad operatori e mercato, la biomassa adulta di tonno rosso si rimette inb piedi e raggiunge il 60% del livello di riferimento per la sostenibilità. Praticamente raddoppia la percentuale registrata con grande preoccupazione nel 2005. Le statistiche inducono le autorità ad aumentare le quote di pesca, anche se con grande cautela. Nel 2025 l’Italia ha potuto pescare 5.200 tonnellate di tonno rosso ma il limite è stato raggiunto molte settimane prima del fermo pesca. Se all’inizio i pescatori salutano con favore le quote oggi le definiscono un cappio al collo. Gli operatori campani, per esempio, le considerano troppo restrittive alla luce del ripopolamento delle acque. Anzi, accusano le istituzioni e dicono: «le quote severe sono più dannose di quanto possa esserlo la pesca stessa». Considerando la presenza abbondante di tonni, «i limiti imposti dalle normative europee sono troppo stringenti» anzi, «ci costringono a rigettare in mare parte del pescato per evitare pesanti sanzioni e sequestri». Questa pratica, nota come «rigetto» è di fatto il paradosso delle quote. «I tonni rigettati in mare spesso non sopravvivono e le carcasse vanno alla deriva decomponendosi lentamente». Una stima attendibile dice che nel 2025 solo in Italia sono stati rigettati in mare 20.000 tonni già pescati. Uno spreco alimentare ed economico, oltre che un problema ambientale. Una pratica «che rischia di far fallire decine di imprese familiari».

Numeri del settore in Campania
Ma ora che le reti sono state issate sulle banchine in attesa della nuova stagione, i pescatori campani e italiani chiedono di rivedere le regole, chiedono misure utili a difendere il comparto. Le stime dicono che la Campania “pesca” oltre 2 mila tonnellate di tonno rosso all’anno, soprattutto grazie alla tecnica della circuizione che impegna 31 imbarcazioni. Una cifra imponente se si considera che la quota nazionale si ferma a 5.200 tonnellate. Nel mercato regionale, il valore del tonno rosso rappresenta una risorsa fondamentale per la filiera, dalla vendita all’ingrosso alla ristorazione. Il prezzo si aggira sui 17 euro al chilo, ma varia in base alla qualità e al taglio, e i valori possono superare i 50 euro al chilo per le parti più pregiate. Il «Rapporto Mater» dice che la Campania dispone di una flotta peschereccia composta da 1.021 battelli, che sono l’8,6 % del totale nazionale (i battelli del settore artigianale sono 1.556 secondo altri dati raccolti da associazioni). I numeri più attendibili dicono che la produzione ittica regionale è di 5.001 tonnellate, che il valore complessivo del pescato è di 37,3 milioni di euro, che diventa 100 considerando l’intera filiera pesca‑mare che dà lavoro a 4mila lavoratori tra diretti e indotto. Secondo il report 2024 sull’Economia del Mare (Osservatorio Nazionale Economia del Mare), in Campania ci sono 32.741 imprese e 60.000 operatori. Per difendere il comparto, i pescatori sono pronti a proporre alternative all’Ue: alcune cooperative campane, per esempio, hanno sperimentato sistemi di tracciabilità avanzata e collaborazioni con enti scientifici per migliorare il monitoraggio e rendere più trasparente la filiera. Del resto, la difesa dell’ecosistema del Mediterraneo, che resta certamente fragile, è un obiettivo per tutti quelli che vivono di mare. In questa sfida, i pescatori campani si propongono come sentinelle di tradizione e modernità, equilibratori tra il declino e la rinascita di un patrimonio marino coscientemente inestimabile.
La concorrenza sleale della pesca illegale
I pescatori artigianali devono fare i conti con il boom della pesca industriale, ma subiscono pesantemente le ripercussioni della pesca illegale, che resta un cancro difficile da estirpare in tutto il Mediterraneo. Secondo stime recenti pubblicate dell’Iccat grazie all’impegno di varie organizzazioni di tutela ambientale, fino al 20-30% del tonno rosso pescato in alcune zone del bacino mediterraneo potrebbe provenire da attività non autorizzate o da metodi non conformi alle normative. Queste catture illegali alterano gli sforzi di conservazione e creano un mercato parallelo che svaluta il lavoro degli operatori rispettosi delle regole.
Negli allevamenti crescono i guadagni
E intanto crescono i numeri degli allevamenti, che rappresentano un’altra faccia del business del tonno rosso, una faccia con luci ed ombre, secondo i pescatori artigianali. In effetti dubbi, contraddizioni, questioni ambientali ed etiche, aleggiano sulle tonnare di ingrasso, una pratica ormai consolidata nel Mediterraneo meridionale, in particolare Spagna, Malta, Turchia, Libia e Tunisia, per soddisfare il mercato e moltiplicare i guadagni. Queste gabbie non ospitano tonni nati in cattività, accolgono esemplari giovani catturati in natura con la tecnica della circuizione e poi trasportati in enormi gabbie galleggianti, dove vengono nutriti fino a raggiungere peso e dimensioni commerciali. Secondo i dati dell’Iccat, oltre il 70% del tonno rosso pescato legalmente nel Mediterraneo finisce negli impianti di ingrasso. Malta e Spagna dominano questo mercato, controllando gran parte della filiera. Le aziende coinvolte sono spesso consorzi o multinazionali che operano su scala industriale, con tecnologie avanzate e canali preferenziali di esportazione, in particolare verso l’Asia. In molti casi, la differenza di forza economica tra queste realtà e le piccole flotte artigianali, come quelle campane, è abissale. E così, il tonno rosso da risorsa naturale condivisa diventa prodotto di lusso controllato da pochi attori. Chi ha accesso agli allevamenti controlla una fetta rilevante del mercato internazionale, potendo immagazzinare il pesce vivo e venderlo al momento più conveniente, alterando prezzi e disponibilità. Ma gli allevamenti intensivi sollevano anche diverse preoccupazioni ambientali. Si parla di pressione sugli stock selvatici, secondo molti, «la cattura di giovani tonni per ingrasso compromette la riproduzione naturale della specie». E c’è anche una questione di inquinamento localizzato perché gli impianti rilasciano scarti organici e resti di mangime che alterano l’ecosistema marino circostante. Per finire si agitano fantasmi sulla tracciabilità: diverse indagini hanno evidenziato casi in cui tonni pescati illegalmente sono stati “ripuliti” attraverso gli impianti di allevamento. Non a caso, Wwf e Greenpeace denunciano da anni l’opacità del sistema, e chiedono maggiore regolamentazione e più trasparenza su tutta la filiera.

Il vero nemico resta il cambiamento climatico
Il Mediterraneo si sta riscaldando il 20% più rapidamente della media globale. Negli ultimi 30 anni, la temperatura superficiale del bacino è aumentata di oltre 1,5 gradi. Un dato che, per un ecosistema relativamente chiuso e delicato come il mar Mediterraneo, è allarmante. Il tonno rosso, per riprodursi, ha bisogno di condizioni termiche stabili tra i 24 e i 26 gradi. Il problema è che questo equilibrio viene sempre più spesso stravolto da ondate di calore marine), che possono portare la temperatura superficiale oltre i 28° gradi. Questo stress termico altera i tempi e le aree della riproduzione, riducendo la probabilità che le uova si sviluppino correttamente. Tradizionalmente, il tonno rosso migra dall’Atlantico orientale al Mediterraneo centrale e orientale per deporre le uova tra maggio e luglio. Ma con l’alterazione delle correnti e la tropicalizzazione delle acque, questi percorsi migratori stanno cambiando. Alcune osservazioni recenti segnalano uno spostamento verso nord delle rotte, con più avvistamenti nell’alto Adriatico e lungo le coste francesi, mentre alcune zone storiche, come il Golfo di Gabes o lo Stretto di Sicilia, vedono una riduzione della presenza. In Campania, questo si traduce in stagioni di pesca più imprevedibili: il tonno può arrivare in anticipo o in ritardo, restare meno tempo o migrare più al largo. Il tonno rosso è un predatore apicale, e si nutre soprattutto di pesce azzurro (sardine, alici, sgombri) e calamari. Ma anche queste prede sono influenzate dal riscaldamento delle acque e dall’acidificazione. La diminuzione di ossigeno in profondità (un fenomeno chiamato deossigenazione) e la crescente presenza di meduse, più resistenti ai cambiamenti, alterano la catena alimentare. Risultato? Tonni più magri, meno numerosi e più difficili da localizzare. Gli scenari climatici non sono ottimistici. Secondo un rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), se non verranno ridotte drasticamente le emissioni globali, il Mediterraneo potrebbe subire un aumento medio della temperatura di 2,5–4° gradi entro la fine del secolo, con impatti gravissimi su biodiversità, pesca e salute umana. In un contesto simile, il rischio maggiore è che il tonno rosso diventi una specie ambientalmente orfana: protetta formalmente dalle leggi della pesca, ma minacciata da un habitat che cambia troppo rapidamente per consentirle di adattarsi.

