Tullio De Piscopo: «Noi, lazzari felici e rivoluzionari. Quella di adesso non è più musica»
Un uragano alla soglia delle 80 primavere, con una passione immensa e il ritmo nel cuore. Dal jazz al pop, dal funk alla musica napoletana. Quante contaminazioni ha la vita di Tullio De Piscopo?
«Tutte quelle possibili. L’importante è stato sempre suonare buona musica. Il mese scorso mi sono concesso un po’ di relax e ho pensato: “Ma come ho fatto 6.800 registrazioni?”. Non ho mai dormito, mai fatto vacanze. Però è stato straordinario. Ho divorato esperienze indimenticabili con Quincy Jones, gli Atomic System, Franco Battiato, Fabrizio De André, Pino Daniele, la Superband, Astor Piazzolla. Ho conosciuto tutti i colori della musica».
La Napoli della sua giovinezza era fucina di talenti musicali. Che aria si respirava in quel turbinio rivoluzionario?
«Era l’epoca della black music. Come stare a casa con i militari americani, soprattutto quelli di colore: suonavano e venivano nei locali dove ci esibivamo, quelli vicino al porto di Napoli. Ci chiedevano di suonare con loro. A volte arrivavano musicisti professionisti, gente che faceva parte delle forze armate: un’esperienza fortissima, che oggi i giovani non possono vivere. È stata una palestra per tutti noi musicisti napoletani. Da lì è venuta fuori la forza della strada, i vicoli di Napoli, la scala melodica napoletana, la musica dei quartieri ma anche delle Vesuvianelle, ricordo la Nuova Compagnia di Canto Popolare. E’ stato un periodo di grandi esperimenti».
Era anche un’epoca di forti contrasti: rabbia, bellezza, dolore.
«Noi non avevamo una lira. La particolarità era la voglia di fare qualcosa, di portare in giro il nostro codice, la nostra musica, di lasciare un segno. Tutto con una grande passione. Come diceva Pino: “anema e core”.
Lei, Pino Daniele, James Senese, Tony Esposito, i fratelli Bennato, Enzo Gragnaniello: eravate una famiglia allargata di suoni nella quale l’uno influenzava l’altro. Avete costruito un miracolo forse irripetibile.
«Ebbene sì. Irripetibile. Una congiuntura astrale. C’era qualcosa di magico tra di noi, perché c’era la voglia vera, la caparbietà, la forza di fare qualcosa di nuovo. Rivoluzionario. Anche chi suonava in modo tradizionale lo faceva in maniera moderna, per l’epoca».
Inevitabile chiederle di Pino. Ci racconti un aneddoto che le è rimasto nel cuore.
«Eravamo in America, durante l’ultimo tour mondiale fatto insieme. Mi disse: “Grazie Tullio, mi hai salvato per la terza volta”. Non gli chiesi perché, lo lasciai volutamente sospeso. Lui mi guardava, aspettava che gli chiedessi “perché?”, ma io non lo feci. Gliel’ho chiesto solo qualche giorno dopo. Io a quel tour non dovevo andarci: doveva esserci un altro batterista americano. Ma Pino mi chiamò pochi giorni prima di partire e mi disse: “Con questo batterista non mi trovo! Io voglio condividere questo tour con te».
Ricorda il momento preciso in cui hai capito che stavate facendo qualcosa di storico, che Napoli stava cambiando la musica italiana?
«No, eravamo incoscienti. Però attenzione: il 19 settembre del 1981 abbiamo capito che stavamo scrivendo una pagina di storia della musica italiana. Ricordo quel concerto: dopo, Pino e io andammo a mangiare, ma non lo vedevo al tavolo. Mi dissero che era rimasto sul pullman. Andai da lui, stava da solo in fondo, fumava e pensava. Gli chiesi di venire con noi e mi disse: “Non ho voglia”. Lì ho capito che aveva preso coscienza di essere diventato il re di Napoli, con Piazza del Plebiscito come suo teatro all’aperto. Sapeva che non poteva più uscire come prima, a mangiare una pizza per strada da solo».
Se dovesse scegliere un solo concerto, un solo backstage, un solo istante che rappresenti quella stagione irripetibile, quale sceglieresti?
«Scelgo Napoli. È stata un’emozione fortissima, indimenticabile. Non potete immaginare: stare sul palco e vedere gente svenire, portata via da sotto al palco, ritrovarmi le persone sulla pedana della batteria! Una cosa che ti resta dentro. Noi abbiamo vissuto qualcosa che nessun altro, in Italia, ha mai vissuto».
«Andamento lento» è un pezzo iconico. Com’è nato davvero?
«E’ nato quando incontrai in aeroporto Marco Ravera, patron del Festival di Sanremo, una persona straordinaria, gentilissima, figlio di Gianni Ravera. Lo vidi all’aeroporto e mi disse: “Perché non mi dai un pezzo per Sanremo ‘88?”. Io risposi: “Marco, ma ti sembro un artista da Sanremo?”. E lui: “Io voglio quello che sai fare tu”. Allora dissi “ok”. Con il produttore cercammo collaboratori e trovammo i fratelli Capuano. Scelsero una marcetta che poi diventò “Andamento lento”, anche se allora non aveva ancora titolo: era tutta in forma maccheronica. Poi fu costruita e divenne quella che conoscete».
Se potessi parlare al Tullio ragazzino che suonava nei locali del porto, che consiglio gli daresti?
«Gli direi: scetati! Ero troppo timido. Ma avevo 15 anni e i frugoletti sul viso».
Un giovane che oggi suona in un garage a Napoli può sognare quello che sognavate voi?
«Certo che può, ma deve avere qualcosa di forte dentro. Non può fare le stesse esperienze: non ci sono più le giuste collocazioni. Ci sono tanti bravi musicisti, ma dove vanno a suonare? Alcuni locali addirittura chiedono di portare i clienti, è assurdo! Ma chi ce l’ha dentro forte deve lasciare il suo paesino, deve soffrire. È troppo facile restare comodi: bisogna farsi vedere, gridare, esprimersi».
Che differenza c’è tra la musica di oggi e quella della tua generazione?
«Adesso non è più musica. Come diceva James: “La musica sta da un’altra parte”. Manca proprio qualcosa, ad esempio: una volta sentivi una grande introduzione di un minuto, ora parte tutto subito, senza respiro, senza un inizio che ti prepari».
Permettici una domanda personale: hai affrontato una malattia con immenso coraggio, anche parlandone pubblicamente. Cosa ti ha dato la forza di continuare?
«La musica. La passione, la forza della musica e la mia famiglia. Pino mi venne a trovare in ospedale, come la mia famiglia, i miei nipotini, le mie figlie. Ma è stato quello a darmi la forza: la musica. Io dissi a Pino che volevo tornare a suonare, i dottori dicevano che non sarei riuscito in tempo per il nostro debutto dell’epoca ma gli dissi “Pino, non trovare nessuno, ce la faccio”. E alla fine ce la feci».
Hai mai avuto paura del silenzio, dopo una vita piena di suoni?
«Sì, lo ammetto: ho avuto paura. Ma ora sono qui. E non sto in silenzio».
Tra pochi giorni ti esibirai a Torre Annunziata, un’occasione per ritornare nella tua terra. Diceva Luciano De Crescenzo: Napoli è ancora l’ultima speranza che resta al mondo. E’ ancora così?
«Napoli non è questione di speranza: Napoli è Napoli. Nel bene e nel male. È un paradiso ma bisogna saperla amare. Non si fa altro che criticarla. Invece no, Napoli è sempre Napoli».


