Una generazione inquieta: dopo la pandemia, l’angoscia della guerra
LE PAURE DEI GIOVANI
18 novembre 2025
LE PAURE DEI GIOVANI

Una generazione inquieta: dopo la pandemia, l’angoscia della guerra

Perché l’idea che l’Italia possa essere trascinata in un conflitto non è più fantascienza. Non si tratta solo di paura, ma di una nuova forma di realismo storico
Carmen Caldarelli

Una generazione condannata all’inquietudine, la prima dopo decenni, a dover fare i conti con sciagure e angosce. Prima l’incubo della pandemia, che ci ha chiuso in casa per due anni lasciando un solco dentro le nostrte anime, poi quello delle guerre in un mondo in fiamme. Forse è per questo che per la prima volta dopo decenni, i giovani guardano al futuro con un groppo in gola: la guerra non è più una serie di capitoli sui libri di storia, come è capitato per i nostri predecessori, la guerra è una minaccia concreta. Per anni, ci siamo cullati nell’illusione della stabilità e della pace. Dopo le macerie della seconda guerra mondiale e le tensioni della Guerra Fredda, l’idea stessa di un conflitto sul nostro territorio era diventata impensabile per tutti. Certo, le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi hanno conosciuto crisi economiche, emergenze climatiche, mutamenti sociali, ma mai la guerra come possibilità reale.

 

Oggi, però, quella distanza si incrina: la pace sembra sempre meno garantita in un panorama geopolitico pericolosamente instabile: la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio Oriente, le tensioni nel Pacifico e la fragilità dei rapporti tra i grandi blocchi di potere riportano la paura dentro le case europee. La Generazione Z, nata nel cuore dell’Europa pacificata, si trova a ridisegnare la percezione collettiva della sicurezza. In un contesto dove la parola “riarmo” torna a essere pronunciata con naturalezza nelle cancellerie europee, anche in Italia cresce la consapevolezza che la guerra non è più dunque un concetto astratto, confinato ai notiziari o ai libri di storia, ma una possibilità concreta. Per molti giovani, l’idea che l’Italia possa essere trascinata in un conflitto non è più fantascienza.

 

Non si tratta solo di paura, ma di una nuova forma di realismo storico. Il dopoguerra è finito davvero, e il mito della “pace eterna” che aveva accompagnato l’integrazione europea appare oggi incrinato. Le stesse istituzioni comunitarie, che sono nate per evitare un nuovo scontro armato sul continente, si trovano oggi a discutere di eserciti comuni, difesa europea e obblighi di spesa militare. Sui social network e nei luoghi di confronto online emerge un sentimento misto: scetticismo, inquietudine, ma anche desiderio di capire. I giovani, spesso accusati di disinteresse per le vicissitudini di questo nuovo mondo, mostrano al contrario una visibile, crescente attenzione ai temi geopolitici, informandosi, discutendo, condividendo analisi e opinioni. Un comportamento che riflette la paura, ma anche la volontà di non farsi trovare impreparati. Questa generazione si muove in un paradosso: da un lato è la più connessa e informata di sempre; dall’altro è anche la più fragile economicamente, la più precaria e la meno rappresentata nelle scelte di potere.

 

Sapere che la guerra, con tutto il suo peso materiale e psicologico, potrebbe entrare nelle proprie vite, significa sentirsi vulnerabili in un modo del tutto nuovo, non è solo il timore per la sicurezza personale, ma anche e soprattutto un timore nato perché si ha paura di perdere quella libertà di muoversi, viaggiare, scegliere, di costruirsi un futuro, una libertà che fino ad oggi era stata data per scontata. In questo clima, il linguaggio cambia e termini come «difesa comune», «leva militare», «arruolamento» o «mobilitazione» tornano a circolare nel dibattito pubblico. Se fino a pochi anni fa la leva obbligatoria era vista come un retaggio del passato, oggi qualcuno ne invoca il ritorno come strumento di preparazione e coesione mentre altri, invece, ne temono la riscoperta come segnale di regressione.

 

La nuova generazione non è una generazione bellicista, è una generazione spaventata ma lucida, consapevole della complessità del mondo e delle interdipendenze che lo governano. La paura della guerra non nasce da un nazionalismo riemergente, bensì da un senso diffuso di impotenza di fronte a dinamiche globali che sfuggono al controllo dei singoli Stati, senza eccezione per il nostro. In questa impotenza si annida una riflessione però più profonda: cosa significa essere cittadini europei in un mondo che torna a dividersi in blocchi, che arma i confini e che misura la sicurezza in missili e droni? La guerra, per chi è nato dopo il 2000, è un concetto assimilato attraverso schermi e videogiochi, attraverso reportage o film. Ma quando il conflitto si avvicina, quando diventa tema quotidiano, cambia anche la percezione del tempo. Il futuro non appare più come uno spazio di crescita, ma come una linea incerta da difendere.

 

Nelle scuole e nelle università, tra chi cerca il primo lavoro o sogna di andare all’estero, si avverte un filo di inquietudine, quella sensazione che la storia stia tornando a bussare e che, per la prima volta, la generazione nata nella totale illusione della pace debba ora imparare a convivere con la possibilità della guerra. Non è fatalismo, ma consapevolezza, e forse proprio da questa consapevolezza potrà nascere un nuovo impegno civile, un modo diverso di pensare la politica estera e la responsabilità collettiva. Se è vero che la guerra è tornata a essere una possibilità, allora la pace, quella vera, costruita con intelligenza e solidarietà, deve tornare a essere una scelta. Diversamente in futuro la costante sarà una guerra senza fronti, liquida, capace di consumare nazioni e coscienze, una spirale di crisi politiche, economiche, vendette, razioni, di tecnologie destinate a sfuggire al controllo. Ed in tutto questo caos l’unica certezza sarà la distruzione dell’umanità da parte della sua stessa intelligenza.