È una delle pietanze che in queste ore sarà sulle tavole di moltissimi italiani: preparato in dozzine di modi, è da sempre tra i protagonisti del menù natalizio, soprattuto al sud. Parliamo del baccalà, il pesce bianco che arriva dai mari del Nord (in particolare da Norvegia, Islanda e Danimarca) attorno al quale c’è un giro d’affari di svariati milioni di euro. E, anche se la cosa sembra strana, è un business sul quale si è fiondata pure la camorra e che ha rischiato di creare un insanabile incidente diplomatico tra il nostro Paese e la Norvegia. I clan, dunque, non vivono solo di droga, estorsioni, traffico di armi e smaltimento di rifiuti tossici, ma pure di baccalà.
Certo, non si raggiungono i fatturati stellari del racket o della droga, ma contrariamente a quanto si possa pensare il giro d’affari è piuttosto consistente. Basti pensare che dalla Norvegia, ad esempio, ogni anno l’Italia importa oltre tremila tonnellate di baccalà, e almeno mille sono destinate a Napoli. Ma il commercio di questo pesce così saporito ha subito negli anni un forte condizionamento perché la camorra, tra un omicidio e l’altro, ha rubato decine e decine di camion di imprese norvegesi, provocando danni economici per oltre sei milioni di euro. Ma in gioco non ci sono stati solo i soldi sottratti alle aziende nordiche. I furti di Tir, infatti, hanno fatto scendere il gelo – è il caso di dirlo – tra le autorità italiane e il governo di Oslo perché per un lungo periodo molti degli autisti partiti dal Paese scandinavo, una volta approdati nella zona compresa tra Caserta e Napoli, sono andati incontro ad una inimmaginabile e traumatica esperienza che difficilmente dimenticheranno: sono stati derubati, drogati, picchiati, rapiti, torturati. Le loro incredibili storie (incredibili per chi, come loro, vive una realtà tranquilla) sono state raccontate nel libro inchiesta «Camorraland» della scrittrice italo-norvegese Mariangela Di Fiore (di padre napoletano) che ha dedicato molte pagine a quella che a Oslo e dintorni è stata definita «la mafia del baccalà». L’indagine realizzata dalla Di Fiore ha fatto emergere un dato imbarazzante (per noi): tra gli autisti norvegesi c’è un netto rifiuto ad accettare trasferte in Campania; l’incubo vissuto da molti loro colleghi ha seminato il panico al punto tale che al volante degli autotreni da un po’ di tempo a questa parte ci sono solo autisti di altre nazionalità, soprattutto dell’Est europeo. L’interesse dei clan nei confronti dei camion che trasportano baccalà risale a molti anni fa; i primi furti sono avvenuti nel 1987, ma si trattava di episodi assai sporadici; poi a partire dagli inizi del 2000 interi carichi sono stati trafugati prima di arrivare ai grossisti della provincia di Napoli. Nella quasi totalità dei casi la merce viene rivenduta a prezzi assai ridotti a commercianti compiacenti, provocando così un danno ingente agli esercenti onesti che non vogliono rifornirsi dalle organizzazioni criminali. Dal libro della Di Fiore si scopre che in alcune circostanze i furti sono avvenuti negli autogrill, dove gli autisti avevano parcheggiato i Tir per qualche ora di riposo; i camionisti sono stati neutralizzati in diversi modi, qualcuno è stato reso innocuo perfino con il gas narcotizzante scaricato nelle cabine guida. Ma c’è pure chi è stato incappucciato e abbandonato in aperta campagna. Nell’elenco dei norvegesi rimasti sotto choc ce n’è pure uno particolarmente sfortunato che è stato lasciato in una baracca con i polsi e le caviglie legati col filo di ferro; è stato lì dentro per ventiquattrore senza cibo e senz’acqua. A salvarlo sono stati dei passanti che hanno sentito le sue grida disperate.
I furti e le violenze non hanno solo arricchito il fascicolo delle denunce, ma hanno pure suscitato l’ira dei media norvegesi che nel 2002 hanno fatto esplodere il caso mettendo a repentaglio i rapporti commerciali con l’Italia. «La mafia può fermare le esportazioni di pesce», ha titolato un quotidiano di Oslo dopo che una compagnia di assicurazione aveva dovuto sborsare un risarcimento da un milione e centomila dollari a una ditta alla quale erano stati sottratti dieci camion che trasportavano baccalà. In quella occasione l’allarme è stato recepito dagli operatori campani, convinti che i furti fossero stati realizzati con la compiacenza di commercianti con pochi scrupoli. Mario Esposito, presidente dell’Associazione stoccafisso norvegese, ha insistito sulla necessità di controlli efficaci perché un carico di venti tonnellate non può sparire nel nulla, soprattutto perché il pesce non lo si può stoccare dappertutto ma in locali appositi e a determinate temperature.
Come si legge in «Camorraland», l’indignazione di giornali e tv norvegesi ha dato qualche risultato, tant’è che nei mesi successivi l’esportazione si è fortemente rallentata, provocando danni piuttosto consistenti e mettendo in crisi i rapporti diplomatici tra l’Italia e la Norvegia. Sollecitate dalle proteste delle autorità di Oslo, le forze dell’ordine hanno cominciato ad adottare una serie di misure per contrastare il fenomeno, che per un periodo ha subito una netta flessione. Un risultato reso possibile grazie all’impegno di carabinieri e polizia che spesso hanno scortato i carichi lungo le autostrade da Roma in giù. Il resto lo hanno fatto le regole imposte agli autisti: ovvero non sostare a lungo negli autogrill (ad eccezione di quelli di Verona, Modena, Roma e Capua, ritenuti particolarmente sicuri) e non accettare bevande da sconosciuti (alcuni erano stati drogati col caffè). Decisivo anche l’uso di costosi e sofisticati impianti di allarme montati sugli autotreni, una contromisura inevitabile visto il rifiuto delle assicurazioni a stipulare polizze con imprese che avrebbero trasportato merce da Caserta a Napoli.
Tempo dopo, l’«Aftenposten», uno dei più importanti quotidiani norvegesi, ha sottolineato come la «mafia del baccalà» fosse stata finalmente sconfitta, consentendo alle esportazioni di riprendere il flusso degli anni precedenti. Un’esultanza smorzata qualche mese più tardi, quando i raid sono ricominciati. Nel maggio del 2005, però, un’inchiesta condotta dalla polizia stradale, dal Servizio centrale operativo e dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, ha consentito di smantellare un’organizzazione dedita ai furti composta da due clan della provincia di Napoli, Veneruso (Volla) e Vollaro (Portici), in affari con la Sacra corona unita pugliese. L’operazione della polizia, denominata “Stock fish”, ha accertato che la refurtiva non finiva sul mercato illegale, ma veniva venduta regolarmente grazie alla complicità dei negozianti, i quali potevano vantarsi di essere gli unici a fornire quel tipo di prodotto scandinavo.Nonostante il fenomeno si sia poi manifestato in forme più contenute, non è stato ancora debellato. Molto probabilmente continuerà a proliferare, se la camorra continuerà a fare affari commercianti disonesti che in qualche modo (magari fornendo i luoghi e gli orari di consegna) collaborano con i criminali.