Indossare un saio e un cappuccio con profonda devozione, avanzare a passo lento nel buio della sera col profumo d’incenso, aprire uno squarcio di luce soltanto con le fiamme di fiaccole e lampioni attendendo l’alba nuova. E andare avanti, metro dopo metro, sotto balconi illuminati da piattelle, sfidando la stanchezza, col silenzio rotto solo dal canto struggente del Miserere che accompagna le statue della Madonna e del Cristo Morto portate in spalla con incredibile passione. Questo è il cammino di fede e penitenza delle processioni della Settimana Santa, un rito che in penisola sorrentina si tramanda di padre in figlio, da secoli. E che stavolta, purtroppo, in strada non ci sarà. Perché il mostro del coronavirus è tremendamente vivo, si infila in corpi e cuori, aggredisce, uccide.
Lo fa provando pure a fermare l’immagine sacra di un voto leggendario, stretto nella notte dei tempi, rinnovato addirittura durante le guerre. Basti pensare che a Sorrento, l’ultima volta che saltò la processione nera dell’Arciconfraternita della Morte correva l’anno 1876: non ci fu un’autorizzazione prefettizia legata a questioni più burocratiche che di sostanza. La diplomazia allora si mise al lavoro e dodici mesi dopo tutto tornò in perfetto ordine. Sino a oggi. Ora no, non si può, non ci sono possibilità per trattare, capire, trovare escamotage. E poco conta, probabilmente, che il governatore Vincenzo De Luca abbia voluto anticipare il governo e firmare la proroga delle restrizioni anti Covid almeno sino a dopo Pasqua. Le arciconfraternite, da diversi giorni, avevano già deciso di temporeggiare, bloccare i preparativi e le prove dei canti, riflettere sul da farsi, consapevoli che “uscire” – come si dice in gergo – sarebbe stato quasi impossibile. Certo, rimandare tutto all’anno che verrà procura amarezza, desolazione, dolore anche fisico. Ma qui c’è in gioco la vita. E il cammino, nel cuore di ognuno, potrà essere comunque coperto, rispettato, soprattutto nel giorno del Venerdì Santo. Così faranno i priori, gli incappucciati, i confratelli, i coristi del Miserere, i fedeli.
Restare in casa, donare sorrisi, aiutare il prossimo con una donazione o una consegna di farmaci e alimenti, non uscire, fare rinunce di cose semplici e normali, avvertire pesi possenti, invocare il perdono dei peccati: sì, per certi versi, forzando un po’ la mano, tutto può somigliare a ciò che si fa in processione. D’altronde sotto a quei cappucci si pensa, si prega, si riflette su quello che si è fatto e su quello che si poteva fare, chiedendo di poter tornare dalle proprie famiglie come persone migliori. Per chi crede è un miracolo semplice e incredibile, un ossimoro religioso di ferro, giammai una sfilata o un mezzo per mettersi in mostra. Nella vita, non è un mistero, ci sono cose che si possono capire solo se si vivono sulla pelle, con rispetto, con senso d’appartenenza. E che resistono all’accelerata delle mode, che talvolta provano con sciattezza a derubricare le processioni a folclore di paese, a semplice richiamo, magari anche a sfilata di esibizionisti che partecipano ai riti solo per il gusto di esserci. Così non è per tanti, così non sarà mai per coloro che vivono di questi sentimenti. Né lo sarà soprattutto a pandemia finita. Perché non c’è nulla che ti fa sobbarcare di colpo 700 chilometri e sette ore di viaggio a tutta velocità la sera del Giovedì Santo. Proprio come disse lustri fa un fedele, un incappucciato, mentre entrava nella chiesa della Santissima Annunziata di Sorrento per la “bianca”. Un credente vero che, tuttora, ama ricordare quella volta che uscì dal suo ufficio di Milano nel primo pomeriggio per mettersi al volante, cavalcare l’autostrada, arrivare in tempo in chiesa alle 2 del mattino, indossare al volo il saio e cantare il Miserere. Un inno di umiltà che, nella sua visita pastorale del 1992 a Sorrento, Papa Giovanni Paolo II, rendendo confidenze a un parrocchiano, marchiò con parole di fuoco, poi impresse in un commento tuttora consultabile sul web: «È la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia». Aveva ragione, Wojtyla. Oggi a Venerdì Santo vicoli e piazze saranno spente, deserte, vuote. Ma per salvarsi e battere il contagio è l’unica cosa che conta. La fine della pandemia e la salvezza sono i traguardi del rientro da raggiungere i tutti i costi. E’ vero: non ci sarà il saluto alla Madonna né il bacio ai piedi del Cristo Morto né gli abbracci a fine corteo. Non ci saranno i fiori della Madonna regalati alla moglie, alla fidanzata in dolce attesa, alla madre, a una mano amica.
Ora in quaresima, più di prima, valgono la guarigione di un malato, un tampone negativo, un’estubazione di un paziente, il ritorno da una moglie, un marito, un figlio di chi ha lottato contro il Covid per intere settimane in un letto di ospedale lontano dagli affetti e dagli ideali di casa. Che però sono sempre collegati, cuore a cuore.
E’ un’epoca temporanea di dolore diffuso, che comporta una pausa dalla quotidianità, che scava una ferita ieri resa più profonda dall’improvvisa scomparsa di Pasquale Ferraiuolo, un’anima buona e di grande cultura, che ha dedicato la sua vita e le sue forze all’Arciconfraternita dei Servi di Maria e al volontariato per gli ospiti del soggiorno Sant’Antonio. Un confratello dall’alta statura morale e cristiana, che ha fatto dell’onestà e dello studio pilastri della propria esistenza come lo ha ricordato don Carmine Giudici, parroco della Cattedrale di Sorrento e padre spirituale della processione nera. Un puro.