Rocco Traisci.
Boccaccio sosteneva che Dante Alighieri fosse di carnagione scura e non ridesse mai. Un giorno, mentre camminava con la solita “faccia malinconica e pensosa”, sentì chiacchierare un gruppetto di ragazze: “Vedete, vedete… quello è colui che va nell’inferno… Ma davvero torna quando gli pare?”. Al che una disse: “È vero, tu guarda che barba crespa e color bruno gli ha fatto il caldo di laggiù”. Senza farlo intendere, Dante provò un fremito di vanità. E finalmente gli scappò un sorriso. Le poche battute dell’aneddoto demoliscono la fake news della sua iconografia ampollosa, severa e inghirlandata d’alloro. Era molto pop e quando girava per strada la gente del suo tempo lo riconosceva.La fama saldamente mantenuta in vetta per sette secoli, non a caso fa del Sommo la più grande celebrità italiana di sempre. Chiunque ne ha sentito parlare almeno una volta, anche indirettamente, non foss’altro per le centinaia di piazze che recano il suo nome. Lo scorso giovedì 25 marzo, data che secondo gli studiosi segna l’inizio del suo viaggio mistico nella Divina Commedia, si sono aperte le celebrazioni dell’Anno Dantesco, il settecentesimo dalla morte (avvenuta a Ravenna tra il 13 e il 14 settembre 1321), nel quale la visione artistica e la modernità dell’opera si intrecciano alla nemesi storica del suo vissuto.Riscoperto da una nuova pletora di fan e ammirato da un pubblico sempre più giovanile, il mito dantesco si rigenera, intrigante e imprevedibile come mai prima. Fino a qualche decennio fa l’approccio scolastico era finalizzato alla pura esercitazione mnemonica, alla nozione didattica circa il sapiente e virtuoso letterato, alla (spesso) fuorviante connotazione religiosa e profetica. Fortunatamente oggi si tende ad affondare i denti nelle venature di passione, di spavento e di mistero che si addicono a un genio ancora prodigo di inesauribili colpi di scena.Capire Dante da posizioni meno frontali implica un’esperienza nell’orrore del suo tempo, una caduta immersiva nel pensiero di un uomo vissuto a cavallo tra duecento e trecento, perfettamente integrato nel contesto e tuttavia spaventato dalle grandi trasformazioni in corso. Un uomo che afferma il primato della militanza politica ai riconoscimenti poetici (che in seguito rivendicherà senza successo), che profetizza “l’amor che muove il sole e le altre stelle” e poi si ritrova schiacciato dalla sua pesantissima esposizione pubblica (una condanna infamante per frode, estorsione, profitti illeciti, pederastia).Al cospetto di un personaggio così complesso e lontano dal nostro arco temporale, si fa davvero fatica a capire le contraddizioni del suo tempo, nel quale il potere si difende con la spada e la corruzione, la vendetta d’onore è un delitto necessario, dove la prestigiosa Firenze è avvelenata da “barattieri”, intrighi di palazzo e ‘subiti guadagni’, un mondo nel quale proliferano traffici mercantili, imprese tessili e manufatturiere, dove la veloce affermazione del “popolo grasso” trascende nella diaspora tra guelfi “bianchi e “neri” (sostenuti rispettivamente dai banchieri, Cerchi e Donati) e si caratterizza esclusivamente per la difesa di interessi corporativi o trasversali. L’ideologia non c’entra nulla. Quando si scopre che persino Papa Bonifacio XIII si schiera apertamente a difesa della parte “nera”, inviando un cardinale a Firenze per eliminare i “bianchi – di cui Dante è il massimo rappresentante nel priorato – non deve stupire la sua ondivaga posizione su papi e imperatori. Della fede cristiana – benché radicata nei turbamenti del tempo – non gliene frega niente a nessuno.Al di là delle vicende politiche, sempre più tempestose e delle quali sarebbe impossibile ripercorrere le tappe successive, Dante rimane un romanziere puro e raffinatissimo. Ed è nella cura della lingua che si rifugia: “Questo mio volgare – scriverà nel Convivio – fu congiungitore de li miei generanti” (cioè lo parlavano i genitori, cfr). La sua rivoluzione filologica restituisce al parlato moderno decine di idiomi dialettali, che non fabbrica in laboratorio ma cattura dopo estenuanti battute di caccia in giro per il paese. “Se è vero che la Commedia sia l’espressione suprema della novella poesia – commenta Angelo Monteverdi nei ‘Saggi neolatini’ – nello stesso tempo essa è fedele, consapevolmente, a una tradizione di mille anni addietro”. Dell’uomo cresciuto senza madre, di come ragionasse al cospetto della moglie e dei figli e di quali affari – escludendo sonetti, cavalli e politica – gli tormentassero davvero l’esistenza, continueremo a non saperne mai troppo. Le cronache ci raccontano tutto anche della sua vita militare (aveva partecipato alla battaglia di Campaldino in cotta di maglia, elmo e scudo) e pochissimo del carattere umano, in larga parte attinto dall’esegesi di Boccaccio e dagli scritti ritenuti autobiografici. Anche “nel mezzo del cammin…”, parafrasando il celebre verso, si verificano strani black out. Dal 1302 riceve asilo politico presso le famiglie più influenti dell’aristocrazia italiana. Vaga in una selva oscura. Più volte tenta di fare irruzione a Firenze, capeggiando una banda armata nella quale confluiscono anche gli esuli ghibellini, con cui condivide lo stato di latitanza. Tuttavia ogni assalto viene puntualmente ricacciato all’indietro. Poi il buio. Per diversi anni il suo nome scompare letteralmente dalla faccia della terra. Il destino di una creatura dell’aldilà che era caduta accidentalmente nell’aldiquà.
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