*Avvocato penalista e Presidente regionale di Italia Viva
La vicenda giudiziaria della famiglia Cavallotti è, oggi, l’esempio più lampante di come l’equilibrio tra giustizia, politica e propaganda sia stato irrimediabilmente compromesso, ponendo in discussione non solo la credibilità del sistema giudiziario italiano, ma anche la tenuta stessa dello Stato di diritto. Un imprenditore assolto con formula piena può vedere distrutta la sua azienda e la sua vita, sacrificato in nome di un principio superiore – la lotta alla mafia – che da strumento di salvaguardia collettiva è divenuto vessillo di propaganda e abuso. Proprio per questo il Ministro della Giustizia non dovrebbe assicurare agli interroganti parlamentari il suo impegno affinché la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rigetti il ricorso. In un Paese fondato sulla separazione dei poteri, un rappresentante delle istituzioni può e deve difendere le proprie leggi in sede internazionale, ma non potrebbe e non dovrebbe impegnarsi affinché una sentenza sovranazionale sia orientata a favore dello Stato, ignorando i diritti individuali! Purtroppo, nella prassi italiana, la strumentalizzazione giudiziaria della propaganda politica è fenomeno ricorrente. Montesquieu, nel suo De l’esprit des lois, scriveva che “tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo esercitasse i tre poteri”. Qui, il pericolo non risiede solo nella concentrazione dei poteri, ma nella loro strumentalizzazione reciproca: una politica che si serve della giustizia per rafforzare la propria narrazione e una giustizia che diventa essa stessa veicolo di propaganda politica. La lotta alla mafia, nella sua sacralizzazione mediatica, è diventata una narrazione impermeabile alla critica, un dogma che permette – e giustifica – azioni che, in altri contesti, sarebbero considerate abusi di potere. Ma quando un imprenditore viene assolto e tuttavia i suoi beni sono confiscati e la sua azienda distrutta sotto l’amministrazione giudiziaria, quale lotta si sta davvero conducendo? Non certo contro la mafia, ma contro lo stesso concetto di giustizia. La vicenda Cavallotti testimonia questa contraddizione insanabile: da una parte la sentenza definitiva di assoluzione, dall’altra un sistema di misure di prevenzione che, anziché essere uno strumento eccezionale, è diventato una prassi ordinaria, capace di sovrastare persino le pronunce definitive. Sebbene sia preferibile, come diceva Cesare Beccaria, prevenire i delitti anziché punirli, questa prevenzione non può però diventare essa stessa un’arma punitiva.
La repressione non deve diventare ingiustizia. L’eredità dello scandalo delle amministrazioni giudiziarie, che ha visto coinvolta la giudice Silvana Saguto, condannata per corruzione e abuso d’ufficio, incombe ancora su ogni discussione riguardante le misure di prevenzione. Quel “sistema” non è stato un’anomalia isolata, ma la punta dell’iceberg di un meccanismo che spesso ha danneggiato le imprese sequestrate, affidandole ad amministratori che ne hanno decretato il fallimento invece di preservarne il valore. Le misure di prevenzione, nate per colpire i patrimoni mafiosi, si sono trasformate, in alcuni casi, in uno strumento di arricchimento per pochi e di distruzione per molti. Nel caso Cavallotti, il danno economico non è l’unico problema. Qui si parla di morte civile: la perdita non solo di un’azienda, ma della dignità personale, di anni di sacrifici annullati da una giustizia amministrata senza il giusto contrappeso della responsabilità. Non vi è giustizia nel punire chi è innocente, ma solo vendetta mascherata da interesse pubblico. Dietro l’interrogazione parlamentare presentata da Federico Cafiero De Raho e altri esponenti del Movimento 5 Stelle si intravede non solo una posizione ideologica, ma una precisa strategia politica. Difendere a ogni costo le misure di prevenzione non è solo un atto di fedeltà a un principio giustizialista, ma una mossa per colpire il governo Nordio, considerato troppo vicino a posizioni garantiste. La politica, in questa vicenda, sacrifica il senso della giustizia sull’altare della convenienza. La lotta alla mafia, da dovere morale e giuridico, diventa così una maschera sotto cui si nasconde la propaganda. Visto che, come diceva Hannah Arendt, “il potere senza verità è tirannia”, la verità della vicenda Cavallotti – quella di un imprenditore assolto ma comunque annientato – non è compatibile con la narrativa di una giustizia infallibile e di una lotta alla mafia che non conosce vittime collaterali. La politica che fa propaganda con la giustizia è sempre una politica giustizialista e di etichetta: cavalca l’indignazione collettiva per presentarsi come risolutrice dei problemi, ma non risolve nulla. È vero che il tema della “giustizia giusta” non fa vincere le elezioni, ma è altrettanto vero che a lungo andare la propaganda giustizialista fa cadere i governi. L’esperienza italiana è piena di esempi: ogni volta che la giustizia è stata strumentalizzata per fini elettorali, i risultati si sono rivelati disastrosi. Non è un caso che molti governi italiani, da Tangentopoli in poi, siano caduti proprio perché incapaci di gestire lo scarto tra la giustizia che promettevano e quella che producevano. E il rischio oggi non è diverso.
La giustizia giusta, pur non essendo uno slogan elettorale efficace, è l’unica base solida per la stabilità politica. Senza di essa, i governi si sfaldano e con loro crolla anche la fiducia dei cittadini. Se il caso Cavallotti ci insegna qualcosa, è che il sistema delle misure di prevenzione ha bisogno di una riforma radicale. Ed è questo che mi aspetto da un Ministro come Nordio, che ha dimostrato in passato di essere garante della presunzione di innocenza e del giusto processo accusatorio. Non si può permettere che uno strumento pensato per prevenire reati diventi un meccanismo automatico, indipendente dalle decisioni penali. Non si può accettare che la presunzione di innocenza venga svuotata di significato quando entra in gioco la lotta alla criminalità organizzata. E, soprattutto, non si può permettere che lo Stato risponda degli errori con la semplice restituzione tardiva dei beni, senza indennizzi né assunzioni di responsabilità. Come disse Pietro Calamandrei, “le leggi da sole non bastano: perché esse siano rispettate occorre che i cittadini abbiano fiducia nella giustizia”. La fiducia, oggi, è il bene più fragile. E vicende come quella dei Cavallotti dimostrano quanto sia urgente recuperarla. Non basta difendere l’onore dello Stato: è necessario difendere la dignità di chi vive sotto la sua tutela. E solo allora potremo parlare di vera giustizia.