Il 17 giugno 1983 non è solo una data impressa nei libri di storia giudiziaria italiana. È una ferita ancora aperta. È il giorno in cui Enzo Tortora, volto amato della televisione italiana, fu arrestato all’alba, in pigiama, davanti alle telecamere, accusato di essere affiliato alla camorra. Un’accusa basata esclusivamente sulle dichiarazioni di falsi pentiti, in un clima dove la presunzione d’innocenza era già stata cancellata dal clamore mediatico e dall’ossessione per la retorica dell’antimafia. Tortora era innocente.
Lo dimostrò con dignità, con determinazione, con dolore. Ma la macchina del fango, della gogna preventiva, dell’errore giudiziario, aveva già fatto il suo corso. Dopo una lunga battaglia, fu assolto con formula piena nel 1987. Morì un anno dopo, a soli 59 anni, consumato da un male che, per molti, fu anche figlio di quell’umiliazione pubblica. Nessuno pagò. Nessuno chiese scusa allora.
Il magistrato Diego Marmo, che in aula lo definì “cinico mercante di morte”, diventò anni dopo procuratore della Repubblica a Torre Annunziata e, una volta in pensione, ebbe modo di analizzare con lucidità il caso. Disse: «Richiesi la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Tortora, ma agii in perfetta buona fede».
Ma sarebbe un errore limitarsi a un caso isolato, seppur clamoroso. Il caso Tortora è un paradigma. Una metafora drammatica. Un monito, ancora oggi attualissimo. A distanza di oltre quarant’anni, il fenomeno delle ingiuste detenzioni continua a produrre numeri inquietanti. Secondo l’ultima relazione del Ministero dell’Economia e della Corte dei Conti, ogni anno in Italia oltre 1000 persone vengono risarcite per essere state private della libertà senza colpa. Nel periodo 1992–2023, più di 30.000 cittadini hanno ricevuto un indennizzo per ingiusta detenzione, per un costo complessivo che ha superato i 930 milioni di euro.
Nel solo 2022, secondo i dati ufficiali, sono stati elargiti 38 milioni di euro di risarcimenti per errori giudiziari e carcerazioni non dovute. Una cifra che racconta un dramma umano e sociale. Dietro ogni cifra c’è una vita devastata: un padre allontanato dai figli, una madre privata del lavoro, un giovane segnato a vita dalla vergogna di un’accusa infondata. Eppure, questi “effetti collaterali”, come qualcuno li definisce con disarmante superficialità, non generano alcuna vera responsabilità interna al sistema. Le toghe che sbagliano raramente affrontano conseguenze concrete. In Italia non esiste un meccanismo chiaro e trasparente per valutare gli errori giudiziari, né una cultura della responsabilità che spinga l’ordinamento a interrogarsi sui propri fallimenti.
In carcere l’innocente è solo. E resta solo anche nel giorno dell’assoluzione. Dopo il clamore, i riflettori si spengono, e resta solo la cicatrice. Perché in Italia il processo mediatico arriva prima di quello legale. Perché il sospetto è più rumoroso dell’assoluzione. Perché la cultura del dubbio è stata sostituita da quella del sospetto a priori, in nome di un giustizialismo che ha troppi tifosi e pochi garanti. L’ingiusta detenzione non è solo un errore di sistema, ma un attacco diretto alla dignità umana, ai principi costituzionali, al cuore stesso dello Stato di diritto. In un paese civile non può essere tollerata, non può essere derubricata a incidente di percorso.
Dopo il caso Tortora si parlò di riforma della giustizia, di controllo sui magistrati, di riequilibrio tra potere giudiziario e garanzie individuali. Nulla è cambiato davvero. I numeri lo dicono con chiarezza. Senza trasparenza, senza meritocrazia interna, senza responsabilità, la giustizia rischia di trasformarsi in arbitrio. La fiducia dei cittadini nella magistratura è ai minimi storici, secondo l’ultimo rapporto Censis. Il 45% degli italiani ritiene che “la giustizia non sia uguale per tutti”, e oltre il 60% pensa che “i magistrati non rispondano mai dei propri errori”. È un dato allarmante. Perché senza fiducia nella giustizia, si frantuma il patto democratico.
A 42 anni dall’arresto di Tortora, è il momento di fare i conti con il passato, ma anche con il presente. Il tempo della retorica è finito. Forse serve una giustizia più umana, più attenta, più umile. Che sappia chiedere scusa. Che non tema di correggersi. Che metta la persona al centro. Perché ogni innocente in carcere è una sconfitta dello Stato. E ogni volta che la giustizia sbaglia, non è solo un cittadino a perdere la libertà, è tutto il Paese a perdere credibilità.