C’è una verità che l’estate estrema di questi anni ha reso impossibile ignorare: le nostre città stanno diventando fornaci. Le ondate di calore si susseguono con violenza crescente, e ciò che un tempo sembrava eccezionale — quaranta gradi all’ombra, asfalti liquefatti, parchi secchi e ospedali pieni di anziani in crisi respiratoria — oggi è la nuova normalità. È il volto climatico del nostro tempo. E l’inerzia con cui lo affrontiamo rischia di diventare una delle colpe storiche del nostro modello di sviluppo. Per decenni abbiamo costruito città più per le automobili che per gli esseri umani. Abbiamo cementificato i margini e i centri, ridotto a vezzo ornamentale ciò che doveva essere infrastruttura verde. Abbiamo guardato alla modernità come sinonimo di superficie liscia, riflettente, impermeabile, dimenticando ciò che il buon senso contadino sapeva: l’albero è ombra, l’acqua è refrigerio, il suolo vivo è barriera al calore. Eppure, già nell’Ottocento i modelli urbanistici più lungimiranti avevano compreso l’importanza di spazi verdi continui. I boulevard di Haussmann a Parigi non erano solo arterie per il traffico: erano corridoi vegetali, strumenti di igiene, salute pubblica, qualità della vita. Un secolo dopo, li abbiamo sostituiti con svincoli, parcheggi, centri commerciali e ipermercati senz’anima. Oggi paghiamo il prezzo di questa visione: temperature urbane fino a 7-8°C superiori rispetto alle aree rurali circostanti, fenomeno noto come urban heat island, l’isola di calore urbano. La salute pubblica, la coesione sociale e la vivibilità sono a rischio. Ma esistono alternative. E ci sono esperti che da anni studiano e propongono modelli concreti di riconciliazione tra città e natura. Tra questi, Cecil Konijnendijk, urbanista olandese, ha formulato la regola 3-30-300, ormai divenuta riferimento mondiale: ogni cittadino dovrebbe poter vedere almeno 3 alberi dalla propria finestra, vivere in quartieri con il 30% di copertura arborea e avere accesso a un’area verde entro 300 metri da casa. È un criterio semplice, ma rivoluzionario: trasforma il verde da lusso a diritto. In Italia, Andreas Kipar, architetto paesaggista, ha guidato progetti come il masterplan green della Bassa Reggiana e la riqualificazione verde di aree industriali dismesse. Il suo approccio coniuga paesaggio e urbanistica: la città non si pianta, si coltiva. Accanto a loro, l’architetto milanese Stefano Boeri ha dato forma al concetto di bosco verticale, integrando biodiversità e densità urbana. Le sue torri vegetali di Milano, imitabili in mille varianti, sono un segnale che anche l’architettura può diventare ecosistema. Molti comuni europei e latinoamericani ci stanno indicando la via. A Parigi, centinaia di cortili scolastici sono stati trasformati in oasi climatiche che mitigano il calore e offrono rifugio agli studenti. A Zurigo, il progetto Asphalt Busters ha convertito parcheggi e piazzali in micro-foreste partecipate dai cittadini. Singapore, da decenni, ha fatto del verde una strategia nazionale: tetti verdi obbligatori, sensori ambientali intelligenti, giardini verticali su edifici pubblici. Medellín, in Colombia, ha creato corridoi ecologici lungo le strade più trafficate, riducendo la temperatura fino a 3 gradi. Ma anche in Italia qualcosa si muove: il Comune di Milano ha avviato il programma “ForestaMI”, con l’obiettivo di piantare 3 milioni di alberi entro il 2030. È un inizio, ma il percorso è ancora lungo, soprattutto nelle aree del Sud, dove la forestazione urbana è ancora una sfida culturale oltre che amministrativa. Serve una rivoluzione del pensiero urbano. Le città vanno ripensate non come architetture isolate, ma come organismi viventi, con funzioni ecologiche da preservare e rinforzare. Non bastano più piani del traffico o isole pedonali. Serve una governance del clima urbano, capace di integrare urbanistica, sanità, ambiente, mobilità. Figure come il Chief Heat Officer, già presenti in città come Atene e Miami, potrebbero diventare la normalità anche da noi. Non per burocratizzare, ma per coordinare azioni complesse e urgenti. Serve un diritto alla frescura, come invocava l’intellettuale e attivista Jane Jacobs già negli anni ’60: “Una città è viva quando è pensata per le persone, non solo per il movimento dei veicoli o dei capitali”. Cosa fare allora? Intanto, creare verde ovunque si può: tetti, pareti, cortili, margini. Ogni metro quadrato asfaltato senza necessità è un metro quadrato sottratto al benessere. Pensare a Piani regolatori climatici: ogni strumento urbanistico dovrebbe avere una sezione dedicata alla mitigazione del calore e alla resilienza. Investire nell’3ducazione pubblica e nel coinvolgimento. Spiegare, narrare, far toccare con mano i benefici del verde urbano. Coinvolgere le scuole, i quartieri, le parrocchie. Pensare a sgravi fiscali e incentivi per chi contribuisce alla forestazione urbana diffusa. Bisogna agire, perché senza alberi, l’estate in città sarà sempre più un inferno. Ma non basta piantarli: occorre curarli, proteggerli, integrarli nella visione di lungo periodo. Occorre cambiare mentalità: dalla città dura alla città porosa, dalla città del traffico a quella del respiro. Oggi, contro il caldo, non ci salverà un condizionatore più potente. Ci salverà un albero. O meglio: migliaia di alberi. Piantati con intelligenza, mantenuti con amore, e considerati per ciò che sono: un’infrastruttura vitale per il futuro urbano.
AGORÀ
29 giugno 2025
Emergenza caldo: senza verde, città fornaci