Il dovere di leggere Anna Politkovskaja, l’accusatrice di Putin
«La verità non è neutrale. È sempre dalla parte delle vittime». Anna Politkovskaja lo scriveva e lo viveva. Giornalista d’inchiesta, penna tra le più affilate della Russia post-sovietica. Fu assassinata il 7 ottobre del 2006 dentro l’ascensore del suo palazzo a Mosca. Quattro colpi di pistola, una modalità da esecuzione. Nessun furto, nessun dubbio sul movente: il silenzio come punizione per chi racconta troppo. Il teatro principale del suo lavoro era la Cecenia, devastata da due guerre: quella andata in scena dal 1994-1996 e poi, ancora più violentemente, dal 1999. Politkovskaja era tra i pochissimi cronisti sul campo, viveva i villaggi bombardati, i centri di detenzione, gli ospedali improvvisati per curare i feriti. Non guardava i fatti da lontano: li toccava, li ascoltava, li documentava. Nei suoi articoli denunciava le torture sistematiche da parte dell’esercito russo e delle milizie cecene filo-Mosca. Raccontava le sparizioni forzate, delle famiglie che non avrebbero più saputo nulla della sorte dei loro cari. Scriveva delle esecuzioni extragiudiziali che lo Stato travestiva da operazioni antiterrorismo. Faceva cadere i veli sui centri di detenzione segreti, come la famigerata «fossa» a Khankala, base russa vicino a Groznyj. Nel suo libro, intolato «Diario russo» scrisse: «Non scrivo per compiacere. Scrivo ciò che ho visto con i miei occhi. La guerra in Cecenia non è una lotta al terrorismo, è una fabbrica di dolore e ingiustizia».
Le sue inchieste non si limitavano ai crimini di guerra. Anna Politkovskaja raccontava anche della corruzione endemica dell’apparato militare, degli accordi opachi tra clan locali e funzionari federali, del silenzio complice dei media russi. Un universo a tinte fosche che balzato chiaro agli occhi del mondo oltre un dennio dopo. Per anni, Anna Politkovskaja è stata una donna isolata, lentamente spinta nel silenzio. Nel settembre del 2004, mentre era in volo verso Beslan per tentare di mediare nella crisi degli ostaggi, fu avvelenata con una sostanza mai identificata. Finì in coma ma riuscì a sopravvivere e tornò più combattiva di prima. Almeno fino al 7 ottobre del 2006. Quel giorno, mentre rientrava a casa, venne colpita da quattro proiettili. Il quinto, alla testa, fu il sigillo di un’esecuzione in stile mafioso. L’arma venne ritrovata sul posto, ed anche quello fu un messaggio chiaro. E c’è un’altra coincidenza sinistra.
L’omicidio di Anna avvenne proprio nel giorno del compleanno di Vladimir Putin, con un tempismo più che simbolico. Le indagini ufficiali portarono alla condanna di alcuni sicari ceceni. Ma i mandanti non vennero mai identificati. Il governo russo liquidò il caso con freddezza, e lo stesso Putin, appena due giorni dopo l’omicidio, dichiarà che la morte di Anna aveva causato «più danni al governo che i suoi scritti in vita». A rileggerla oggi, la storia di Anna Politkovskaja, tutto appare tremendamente più chiaro. Tutto si materializza in uno scenario terrificante che ha condotto il mondo ad un passo dal baratro. E allora, il suo coraggio diventa un esempio per tutti. Per chi ha il dovere di raccontare, ma anche per chi non ha il diritto di voltarsi dall’altra parte in un mondo di crimini insopportabili e violenze indicibili in nome del potere e degli interessi economici che azionano missili e bombe. Quando Politkovskaja iniziò la sua attività di reporter, negli anni ’90, la Russia viveva una fase caotica ma ancora relativamente libera dalla propaganda. Con l’arrivo al potere di Vladimir Putin, nel 2000, le cose cambiarono radicalmente. Le televisioni indipendenti furono chiuse o comprate da oligarchi vicini al Cremlino, le leggi sulla stampa diventarono più restrittive. I giornalisti critici iniziarono a scomparire dalle redazioni. In questo scenario, Politkovskaja diventò rapidamente una delle figure più visibili del dissenso.
Ma anche una delle più esposte. Le sue denunce contro la guerra, contro la brutalità del potere, contro la retorica patriottica, andavano in direzione opposta alla narrazione ufficiale. Nel suo libro «La Russia di Putin» scrisse: «Putin non ha fatto altro che rafforzare la verticalizzazione del potere. Ha trasformato le istituzioni in gusci vuoti, al servizio dell’autorità centrale. E al centro di tutto c’è lui». L’assassinio di Politkovskaja ebbe una gigantesca eco internazionale, ma purtroppo non ha fermato il declino della libertà di stampa in Russia.
Negli anni successivi, altri giornalisti di Novaja Gazeta sono stati uccisi o costretti all’esilio. Il giornale stesso è stato chiuso nel 2022, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. Quando, il 24 febbraio 2022, Vladimir Putin ha ordinato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, le parole di Anna sono apparse per quello che erano: cronache in anticipo sulla storia. Le stesse logiche di potere, la stessa brutalità militare, lo stesso disprezzo per la vita umana che lei aveva raccontato in Cecenia, sono riapparse in Ucraina. E ancora una volta, a morire sotto le bombe russe sono donne, bambini, civili. Anche per questo, Politkovskaja è diventata un simbolo globale della resistenza dell’informazione libera contro il potere autoritario. Le sue inchieste vengono studiate nelle scuole di giornalismo. Le sue parole rimbalzano nei cortei per la libertà di stampa. Il suo volto appare nei murales, nei documentari, nei festival di diritti umani. A quasi vent’anni dalla sua morte, il mondo ha ancora bisogno di lei. In un’epoca in cui la disinformazione si diffonde più veloce della verità, in cui il giornalismo è sotto pressione ovunque la sua voce continua a parlare. Un giorno scrisse: «Io credo nel potere delle parole. E credo che raccontare la verità sia l’unica arma che abbiamo contro la violenza».Anna non è diventata martire per scelta, ma per coerenza.


